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SIMON NORFOLK

Militant archaeology
Intervista a cura di Marina Caneve per CALAMITA/À 

Simon Norfolk (nato nel 1963 in Lagos, Nigeria) è un fotografo di paesaggio il cui lavoro per più di una dozzina di anni si è basato sull’indagine ed approfondimento del significato della parola campo di battaglia, in tutte le sue forme. Norfolk ha fotografato in alcune delle più pericolose zone di guerra di tutto il mondo ed aree di crisi caratterizzate dalla presenza di rifugiati; ha inoltre lavorato sui  supercomputer utilizzati per progettare sistemi militari o sui test di lancio di missili nucleari. Descritto da un critico come “il migliore dei fotografi documentari del nostro tempo”, il lavoro di Norfolk è stato ampiamente riconosciuto a livello internazionale. Nel 2003 è stato selezionato per il Citibank (Deutsche Böurse) Prize e nel 2012 ha vinto il Prix Pictet Commission. Ha prodotto quattro monografie, tra cui ‘Afghanistan: chronotopia’ (2002); ‘For Most Of It I Have No Words’ (1998) che tratta il tema dei paesaggi legati ai genocidi; e ‘Bleed’ (2005) sulla guerra in Bosnia. La più recente è ‘Burke + Norfolk: Photographs from the War in Afghanistan’ (2011), uscita in parallelo ad una mostra personale alla Tate Modern. Simon Norfolk vive e lavora tra Hove e Kabul.

www.simonnorfolk.com

Simon Norfolk

Simon Norfolk portrait

CALAMITA/À: Una delle sfide più interessanti della fotografia è scoprire storie, spesso dolorose, che ci circondano – il loro nascondersi, la loro natura indicibile e il disastro che il passato lascia dietro di sé. Lei ha lavorato in collaborazione con l’archivio di John Burke. È come una doppia ricerca in un certo senso. Lei ha anche detto che una buona fotografia inizia con una buona ricerca. Quanto è importante la storia nella fotografia e che cosa intende con “fotografare il passato”? È d’accordo se dico che il futuro è perso nel passato? Ci potrebbe dire qualcosa di più su questo tipo di relazione.

Simon Norfolk: Quando vado su internet posso trovare un milione di immagini di come le cose appaiono. La legge delle probabilità dice che almeno qualcuna di queste immagini sarà buona, quindi posso pensare che mille su un milione potrebbero essere delle buone fotografie. Come posso allora, come fotografo, competere con questo e offrire qualcosa di nuovo? Mi sembra che il lavoro del fotografo che esce a fotografare ciò che accade intorno a sé sia ormai superfluo, finito, non più così interessante.

Penso che quello che i bravi fotografi possono fare oggi sia cercare di scoprire le storie nascoste stratificate intorno a noi. Questo non solo perché valga la pena approfondire queste storie, ma anche perché la fotografia é un medium molto efficace in questi tipi di ricerca. Queste storie non sembrano essere conosciute dalle persone che – per esempio – possiedono negozi, vanno in ufficio o che vendono appartamenti nella strada in cui vivo. Non sanno quello che è successo in questo luogo durante la seconda guerra mondiale o 500 anni fa. Tutte queste storie sono spazzate vie. Viviamo in una società che è innamorata del nuovo e soltanto ciò che è nuovo appare nei nostri televisori e giornali. Il lavoro del fotografo è quello di fermare questo processo e rivelare. Io amo definirmi non tanto un fotografo quanto piuttosto un archeologo. Molti dei luoghi che fotografo non sono solo luoghi con antiche storie nascoste, ma luoghi in cui si è svolta un’attività criminale. Vado in questi luoghi non solo da archeologo, ma anche da detective sulla scena di un crimine. Per me il lavoro del fotografo è il lavoro di uno scienziato forense: il mio compito è quello di trovare le prove dei crimini che si sono verificati in questi luoghi.

All’epoca di John Burke (1838-1900), la fotografia che ruotava intorno all’impero britannico era razzista, arrogante e colonialista. John Burke non era nessuna di queste cose: il che era molto insolito all’epoca. Mi sono interessato a quest’uomo perché il suo lavoro mi è sembrato incredibilmente di larghe vedute e perché non riprendeva i cliché che ogni altro fotografo riprese al suo tempo. Perché quest’uomo era così insolito? Perché era così bravo? Cercare di scoprire tutte queste cose per me è stato come  prendere parte ad un’azione poliziesca. Ecco perché l’ho trovato così stimolante.

AFG Ariana SN08

© Simon Norfolk, AFG Ariana

Destroyed military and civilian radio installations on Kohe Asmai ( known as Radio TV Mountain ) in central Kabul. Looking torwards the west of Kabul.

© Simon Norfolk, destroyed military and civilian radio installations on Kohe Asmai ( known as Radio TV Mountain ) in central Kabul. Looking torwards the west of Kabul.

A/À: Qual è il ruolo dei ritratti nella sua ricerca?

SN: Non avevo mai realizzato un ritratto prima di vedere quelli di John Burke. Ho sempre voluto usare il paesaggio per raccontare la storia dei luoghi fino a quando non ho visto il modo in cui John Burke fotografava. Il modo in cui organizza i gruppi ed il modo in cui faceva apparire le persone nei gruppi, il modo in cui coordinava molto attentamente il posizionamento dei soggetti ed il modo in cui disponeva tappeti sui pavimenti per rendere le sue immagini una sorta di teatri in cui la fotografia venisse messa in scena: nulla di tutto ciò mi era mai successo prima. A partire da questo l’idea di fotografare esattamente nel suo stile – una versione moderna di quello che Burke stava facendo nel 1878 – mi cominciò ad interessare veramente.

John Burke fotografò gli afgani in Afghanistan perché all’epoca controllavano e governavano l’Afghanistan, Kabul in particolare. Volendo rifare la stessa fotografia in Afghanistan oggi, ci si rende conto che gli afgani non hanno più alcun controllo su economia e politica del loro paese. Le fotografie equivalenti a quelle di John Burke oggi possono solo essere fotografie di afgani guidati da stranieri, dall’ambasciata americana, dalle Nazioni Unite, da Save the Children o dalla MSF. Lì dove il potere si annida oggi in Afghanistan possiamo ricostruire quelle immagini, nelle persone che definiamo “gli Internazionali”, i nuovi detentori del potere a Kabul.

Amo riferirmi a questo lavoro definendolo un lavoro che ho fatto con John Burke, come un sodalizio artistico, perché ho la sensazione che mi abbia davvero insegnato ad utilizzare il ritratto. Sono completamente grato a lui per avermi insegnato come fare, anche se è morto da un centinaio di anni.

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© John Burke + Simon Norfolk, Photographs from the War in Afganistan

© John Burke + Simon Norfolk, Photographs from the War in Afganistan

© John Burke + Simon Norfolk, Photographs from the War in Afganistan

A/À: Che cosa ne pensa della verità storica e la verità della fotografia?

SN: Non credo di essere particolarmente interessato a qualcosa che si chiami verità dal momento che non so più cosa sia. Io stesso non credo avrei voluto usare la parola verità, è una parola troppo difficile, svalutata e senza un vero significato. Mi interessano piuttosto onestà, moralità ed etica: tutti elementi che cerco nel lavoro degli altri, e che mi aspetto nel mio lavoro.

A/À: Con riferimento a For Most Of It I Have No Words: Genocide, Landscape, Memory: i paesaggi rappresentano tracce di scene del crimine. Come può un paesaggio collaborare alla costruzione di una memoria collettiva?

SN: Prendiamo l’esempio di Auschwitz. É quasi un caso che ancora esista il campo; c’erano altri campi come Auschwitz i quali, secondo i piani dei tedeschi, dovevano essere costruiti, fare il loro dovere ed infine rasi al suolo. L’unica ragione per cui esiste una memoria collettiva intorno ad Auschwitz è che i soldati russi all’epoca si muovettero più velocemente di quanto i tedeschi si aspettassero, arrivando in anticipo al campo e in questo modo i tedeschi non ebbero il tempo di sbarazzarsi di tutte le prove dell’esistenza del campo stesso. Il contrario è accaduto per esempio Treblinka. Ad Auschwitz possiamo trovare la prova fisica di ciò che è accaduto: il campo è stato in parte distrutto, ma è ancora lì, esiste ancora. É sicuramente un bene avere a disposizione una prova come questa poiché ci permette di essere consapevoli dei crimini che hanno avuto luogo in quel posto.
In questo modo possiamo usare il paesaggio come uno strumento, come qualcosa da mostrare in tribunale e come prova di reato. É la ragione per cui abbiamo bisogno di questi paesaggi e perché necessitiamo di preservarli. In gioco non vi è solamente una sorta di curiosità intellettuale: Auschwitz è uno dei più grandi crimini della storia.
Dobbiamo essere informati riguardo questi argomenti dal momento che l’ignoranza potrebbe causare il loro ripetersi nella storia. É veramente fondamentale conoscere le storie di questi luoghi e questa è la ragione per cui trovo che sia necessario conservare questi paesaggi come scene del crimine.

From the book 'For Most Of It I Have No Words; Genocide, Landscape, Memory,' by Simon Norfolk (1998) Rwanda: massacre

© Simon Norfolk, from the book ‘For Most Of It I Have No Words; Genocide, Landscape, Memory,’ by Simon Norfolk (1998)
Rwanda: massacre

A/À: Lei è interessato alla guerra ed ai conflitti, ma sicuramente non è un reporter di guerra; io allo allo stesso tempo penso non sia possibile parlare di fotografia solamente citando Roland Barthes. Penso che lei sia un artista militante. Come può un artista del nostro secolo lavorare su questi argomenti? Come può la fotografia avere un significato politico e quanto sono importanti per lei aspetti politici, economici e sociali?

SN: Sembra quasi che la militanza sia facoltativa, come se essere impegnato rispetto al mondo fosse facoltativo, come se potessi scegliere di essere o non un artista politico. Penso che esista un fraintendimento riguardo come funzioni il mondo. Esistono forze che vogliono che io non mi impegni politicamente, vogliono che io sia passivo e che sprechi le mie energie fotografando la mia fidanzata nuda, alberi o tramonti. Vogliono che la gente non sia coinvolta con il processo politico perché sanno di essere loro a gestire il processo politico e non vogliono nessuna interferenza.
Quindi la vera domanda per me è come da artista si possa non essere coinvolti con il processo politico? Come si possono ignorare queste questioni? Non esiste l’opzione di esserlo o non esserlo: nel non voler essere un artista politico si sta già agendo politicamente. Tale passività è quello che loro vogliono e il nostro compito è quello di resistere; in questo senso la questione di essere o non essere impegnati politicamente è una non-domanda. Inoltre, trovo incredibilmente facile oggi essere partecipe a queste questioni – ogni volta che penso di staccare, qualche stupido politico dice qualcosa di insensato e mi ritrovo ad essere immediatamente furioso e desiderare di combattere nuovamente. Non mi sembra qualcosa che possa mai finire o svanire nella mia ricerca.

From 'Bleed'. Tailings pond of the Petkovici Dam. A mass grave was discovered dug into the earth of the dam and bodies were also thrown into the lake.

© Simon Norfolk, from ‘Bleed’. Tailings pond of the Petkovici Dam. A mass grave was discovered dug into the earth of the dam and bodies were also thrown into the lake.

The oil-fired power station at Jiyeh, bombed in the first few days of the war.

© Simon Norfolk, the oil-fired power station at Jiyeh, bombed in the first few days of the war.

A/À: La guerra è un problema evidente ma ci sono moltissime cose a monte del combattimento da prendere in considerazione quando ne si parla. Il suo lavoro tratta anche di questo ed in particolare mi riferisco ad Ascension Island e Echelon control system, i supercomputer ed i missili, razzi e satelliti in America. Ci dica qualcosa rispetto a questi argomenti.

SN: Il linguaggio che i fotografi utilizzano per parlare di guerra, quel modo di fotografare i momenti e l’immediatezza del combattimento mediante macchine fotografiche leggere di piccolo formato, l’essere nel bel mezzo dell’azione, è qualcosa che è stato inventato nel 1930 da Robert Capa. Mi sembra ridicolo che i fotografi stiano ancora utilizzando lo stesso linguaggio per parlare di guerra quando la guerra stessa ed il modo in cui la guerra viene combattuta sono cambiati incredibilmente e inconcepibilmente rispetto agli anni ’30. Quando si guarda la tecnologia ed il modo in cui si combatte ora ci si rende conto che non si tratta più solo di uomini armati che sparano ad altri uomini armati che stanno dall’altra parte del campo di battaglia. Nonostante questo i fotografi utilizzano ancora lo stesso linguaggio che fu utilizzato da Robert Capa nel 1930 e a me tutto ciò sembra incomprensibile.

Per esempio alcuni mesi fa gli americani bombardarono la Siria con missili da crociera lanciati da sottomarini a mille miglia di distanza. Non possiamo fotografare un missile sparato da un sottomarino, un missile che viaggia ad un migliaio di chilometri all’ora. Non c’è fotografia possibile per rappresentare il modo in cui le mie informazioni digitali vengono risucchiate dal mio computer, dal mio cellulare o come, mentre cammino per la strada, la mia immagine venga ripresa da telecamere remote e mandata a computer americani che in questo modo possono rintracciarmi e raccontare la mia vita. Questo non lo possiamo fotografare.
Abbiamo bisogno di trovare un nuovo linguaggio per parlare di come la guerra si sta combattendo ora, non come fu combattuta nel 1938. Quindi, per me, i progetti che ho realizzato riguardo Echelon e Ascenscion Island, i missili ed i supercomputer, sono un tentativo di cercare una nuova maniera di parlare di guerra. Penso che utilizzare la bellezza sia fondamentale in modo da attirare lo spettatore a pensare a cose a cui altrimenti preferirebbe non pensare.

Tutti i miei lavori funzionano con le didascalie ed il testo; una fotografia che superficialmente potrebbe sembrare ritrarre solo qualcosa di molto bello, quando viene letta insieme alla sua didascalia ed il testo diviene immediatamente la fotografia di un luogo in cui si stanno testando bombe o dove un disastro o una catastrofe è accaduta in passato. La didascalia è molto importante e vi è una collaborazione indispensabile tra le immagini ed il testo.
Il mio interesse trova nel cercare di trovare nuovi modi per parlare di guerra, perché la guerra stessa si rinnova continuamente. Alla base tutta la nuova tecnologia è, prima di tutto, tecnologia militare, e solamente con il passare degli anni diventa qualcosa che noi possiamo usare. Internet, ad esempio, è stato inventato come metodo segreto di comunicazione tra i computer americani in caso di guerra nucleare e solo diversi anni dopo una versione di esso è diventata uno strumento di uso comune. Il GPS, allo stesso modo, è stato inventato dall’aviazione statunitense per il controllo dei missili e per il monitoraggio dei carri armati sul campi di battaglia e solo in seguito una versione di esso è stata messa appunto per aiutarci a guidare le nostre auto. Le nostre tecnologie derivano tutte da tecnologie militari. Abbiamo bisogno di trovare un modo per fotografare questi soggetti ed in particolare ciò in cui consiste realmente la guerra contemporanea.

Ascension Island, South Atlantic Water catchment system built by the British miltary in the C19th in order to supply water to the troops who manned the island. Breakneck Valley, Green Mountain.

© Simon Norfolk, ascension Island, South Atlantic Water catchment system built by the British miltary in the C19th in order to supply water to the troops who manned the island. Breakneck Valley, Green Mountain.

© Simon Norfolk, The Militaristation of North West Scotland

© Simon Norfolk, The Militaristation of North West Scotland

A/À: L’impulso a commettere genocidi è antico. L’elenco delle tribù che sono state sterminate può essere lungo quanto l’elenco delle specie animali e vegetali che abbiamo spinto all’estinzione. Questo impulso sterminatore è molto frainteso. In realtà si tratta di una sorta di desiderio di utopia, un sacrificio di sangue nel culto di un’idea di paradiso. Qual è il suo approccio a questa questione?

SN: Penso che sia in parte vero e in parte sbagliato. Sembra essere un impulso. Quando mi sono trovato in un posto come Auschwitz, o quando ero in Rwanda nel 1995, potevo percepire qualcosa di incredibilmente animale, qualcosa di incomprensibile, travolgente e davvero terrificante. Queste storie sono difficili da capire, quindi il mio suggerimento è che non si debba perdere tempo cercando di capire. Credo davvero sia un errore.
Analizzando il caso del Rwanda, se pensiamo che le tribù si siano sempre uccise a vicenda e che non ci sia bisogno di cercare di capire perché si tratta di qualcosa di inspiegabile, si sta commettendo un grave errore riguardo quello che è successo in quel paese. La storia di quello che è successo in Rwanda ha molto a che vedere con l’imperialismo belga e francese e le idee europee di razzismo diffusesi dal 1890 al 1900. Quello che è successo in Rwanda negli anni ’90 ha molto a che fare con la storia della Chiesa cattolica in Africa e con il modo in cui i partiti politici in Rwanda hanno provocato lo schieramento dei ruandesi gli uni contro gli altri, come abbiano utilizzato il razzismo per dividere il popolo al fine di mantenere i leader più deboli al potere. Il genocidio ruandese non è ‘solamente’ il risultato di un antico odio tribale. È difficile ma necessario fare delle ricerche per capire, soprattutto perché potrebbe accadere di nuovo. Quindi penso di essere in minima parte d’accordo con questa affermazione, ma anche non condividerla nella sua totalità proprio perché penso che la cosa più importante sia analizzare e capire ciò che è diverso e specifico del caso del Rwanda. Ciò che è vero per il Rwanda forse non è necessariamente nel caso di Auschwitz. Alcune cose potrebbero essere vere, ma non tutto sicuramente sarà vero a causa della differenza di circostanze. É necessario svelare tali circostanze e capirle. Questo è davvero difficile, ma vale la pena farlo.

© Simon Norfolk, photograph, possibly from a soldier’s ID card. Found in a Special Republican Guard barracks next to Saddam’s Sijood Palace, Baghdad. Artefact made April 2003

 

Veste found next to destroyd Iraqi APCs and tanks. Along the road to Abu Grahib. Baghdad. 2003

© Simon Norfolk, veste found next to destroyd Iraqi APCs and tanks. Along the road to Abu Grahib. Baghdad. 2003

A/À: Studiando il suo lavoro è possibile percepire la straniante bellezza degli scenari di guerra e della presenza militare. Facendo una riflessione sulla bellezza in fotografia non ho potuto trascurare il lavoro di Robert Adams. Qual è il ruolo della bellezza rispetto a temi come la guerra, le catastrofi naturali e artificiali?

SN: Penso alla mia fotografia come ad avere un’ecologia, una specie di habitat in cui essa vive. Proprio come gli animali vivono in uno stagno, penso che la fotografia viva in una sorta di habitat, un habitat dove esiste una sorta di concorrenza: perché andare a visitare una galleria di sabato e guardare le mie fotografie del Rwanda quando si può andare a fare shopping, vedere un film, sedersi sulla spiaggia o trascorrere il pomeriggio su Facebook? Non credo che ciò che fa concorrenza al mio lavoro sia l’altra mostra fotografica dietro l’angolo, piuttosto penso che il motivo per cui la gente decide di non andare ad una mostra sia perché ci sono tanti altri modi di passare il proprio sabato pomeriggio e la maggior parte di questi modi sembrano essere molto più piacevoli che guardare le immagini del Rwanda. Quindi per me la bellezza è una tattica, è semplicemente un dispositivo: come faccio io a convincere una persona ad entrare in una galleria d’arte e perdere il proprio sabato pomeriggio guardando le immagini del Rwanda quando si hanno infinite altre possibilità di trovare qualcosa di più piacevole ed allegro da fare nel proprio tempo libero? Io voglio che lo spettatore utilizzi il proprio sabato per pensare al Rwanda e per farlo devo riuscire a farlo entrare dentro la mia galleria; in questo senso devo offrire qualcosa che possa sedurlo.
La mia fotografia funziona come una trappola e la bellezza è un’esca, come il formaggio per il topo. É una tattica temporanea per farlo entrare dentro al mio spazio e dentro alla mia idea. Una volta che si è dentro la mia idea, allora posso martellarlo e schiaffeggiarlo, ma innanzi tutto ho bisogno di farlo entrare dentro, questo è tutto ciò a cui la bellezza serve.

Tibetan refugees living in the McLeod Ganj district of Dharamsala in the Dhauladhar Range of the Himalayas in northen India. Buddhist prayer flags adorn the hillsides

© Simon Norfolk, tibetan refugees living in the McLeod Ganj district of Dharamsala in the Dhauladhar Range of the Himalayas in northen India. Buddhist prayer flags adorn the hillsides

A/À: Il nostro progetto CALAMITA/À si basa sulla catastrofe naturale relativa alla diga del Vajont che si è verificata nel 1963. Cosa pensa riguardo il fotografare le catastrofi? É possibile? Se sì, come?

SN: Ho trascorso 15 anni cercando di trovare modi di farlo. Penso che sia davvero difficile, ha un sacco di problematiche, c’è un sacco di resistenza da parte del pubblico e si deve trovare un modo per girarci intorno; bisogna trovare un cammino che raggiri la resistenza delle persone, i loro limiti ed il senso di cliché, la sensazione che provano di aver già visto tutto e il fatto che trovino questo soggetto noioso. Non credo che sia impossibile, è solo difficile.
Quando si tratta di qualcosa come i crimini di questi ingegneri che hanno costruito la diga del Vajont in questa valle e la loro stupidità, la loro arroganza, è come ripetere la domanda che mi ha fatto prima: “è facoltativo parlarne?”. No, non è facoltativo!
Così l’idea di fotografare catastrofi come qualsiasi altra di queste importanti questioni è fondamentale, non solo perché inusuale, ma perché le forze che controllano questi soggetti vogliono renderci disinteressati a quello che stanno facendo. Questa società di ingegneria ed i politici vogliono che noi dimentichiamo quello che è successo. Vogliono farci pensare che tutto vada bene e non vogliono essere interrotti da domande difficili. Quindi mi chiedo, se si è a conoscenza di questi eventi, come si può tacere?

Io sono un uomo bianco con un passaporto britannico e la possibilità di volare in tutto il mondo, non ho bisogno di un visto, ho delle carte di credito ed un ambasciatore che potrebbe venire in mio soccorso se fossi nei guai da qualche parte, ho tutte queste risorse. I fotografi afgani invece non hanno niente di tutto questo: non hanno la possibilità di scegliere se fotografare ciò che è di fronte a loro o se andarsene, non esiste la scelta di non parlare di questi argomenti. Questi temi sono nella loro vita, ogni giorno, 24 ore su 24. Se loro hanno il coraggio di parlare di ciò che accade allora come posso io non interessarmi a tutto ciò? Il mondo cospirerà per non mostrare mai il loro lavoro e non ascoltare la loro voce. In ragion di questo mi sembra sempre di più che il nostro lavoro consista nel raccontare le cose che non è concesso raccontare a questi altri. Come possiamo esentarci da tutto questo?

 

Marina Caneve è architetto e fotografa; focalizza il suo interesse nella sociologia e lo spazio urbano. La sua ricerca si concentra sul rapporto tra le persone e l’ambiente, l’identità e il valore sociale di urbanistica. Nella sua ricerca vi è un rapporto bulimico con la realtà, in cui assorbe il più possibile e rievoca attraverso una ricomposizione visiva.
Editor di CALAMITA/À, coordina campagne fotografiche nei territori del Vajont, progetti editoriali ed espositivi.
Grazie a Michela Leoni per la trascrizione ed editing dell’intervista.

 

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