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ROB STEPHENSON

Redefining the Borderlands
Intervista di Gianpaolo Arena per CALAMITA/À

Rob Stephenson è stato esposto in numerose gallerie e musei tra cui il Brooklyn Museum of Art, la Jen Bekman Gallery, e il Museum of the City a New York. Gli è stato assegnato una borsa di studio per il Design Trust for Public Space Photo Urbanism (organizzazione no-profit che studia e lavora al miglioramento degli spazi pubblici di New York) e nel 2013 la NYFA Artist Fellowship e fa parte come membro alla darkroom Camera Club di New York. Il suo primo libro, From Roof to Table, pubblicato nel 2012, documenta il movimento di agricoltura urbana nella città di New York. Vive a Brooklyn, NY.

www.robstephenson.com

 

© Rob Stephenson from ‘Borderlands’

© Rob Stephenson from ‘Borderlands’

 

CALAMITA/À: C’è qualche fotografo o movimento che la ha influenzata o ispirata in particolare? Dove si trovano le radici del suo lavoro?

Rob Stephenson: Sono costantemente ispirato da ciò che mi circonda, da quello che vedo, leggo, ascolto. A volte è difficile gestire tutti questi stimoli. Da un punto di vista puramente fotografico, la mia ispirazione iniziale deriva dai fotografi di quello che viene chiamato il New Color movement. Fotografi come Joel Sternfeld, Joel Meyerowitz e Richard Misrach. Il loro lavoro, l’uso sottile del colore e la profondità e ricchezza delle loro immagini continuano ad essere un’ispirazione.

 

© Rob Stephenson from ‘Borderlands’

© Rob Stephenson from ‘Borderlands’

© Rob Stephenson from ‘Borderlands’

© Rob Stephenson from ‘Borderlands’

 

 

A/À: Lei ha lavorato con Joel Meyerowitz. In che misura la sua influenza personale e artistica sono stati importanti per la sua carriera di autore?

RS: L’opportunità di lavorare con Joel ha avuto un fortissimo impatto sul mio sviluppo come artista. Studiando attentamente le sue stampe e i suoi negativi, e ancora di più ascoltandolo raccontare come e perché ha realizzato certe immagini è stata di per sé un’esperienza formativa.

 

© Rob Stephenson from ‘There Swept out of the Sea a Song’

© Rob Stephenson from ‘There Swept out of the Sea a Song’

© Rob Stephenson from ‘There Swept out of the Sea a Song’

© Rob Stephenson from ‘There Swept out of the Sea a Song’

A/À: C’è qualche fotografo contemporaneo che la ha influenzata? Ci sono altri autori che la interessano in questo momento?

RS: Ripeto, credo che là fuori ci sia del buon lavoro più che in abbondanza quindi non posso che essere ispirato da tutto quanto è intorno a me. Così, al volo, dico Jonathan Smith, Bas Princen, Alec Soth, An MyLe.

Parlando di autori, sto giusto finendo il terzo libro della serie “My Struggle” di Karl Ove Knaussgaard, per cui sono stato abbastanza immerso nel suo mondo nell’ultimo anno. Al momento lavoro anche a un progetto vagamente ispirato alle storie brevi di JG Ballard.

 

© Rob Stephenson from ‘There Swept out of the Sea a Song’

© Rob Stephenson from ‘There Swept out of the Sea a Song’

© Rob Stephenson from ‘There Swept out of the Sea a Song’

© Rob Stephenson from ‘There Swept out of the Sea a Song’

A/À: Cos’è stato ad attirarla verso il paesaggio, gli spazi urbani e l’architettura? In che modo il suo lavoro tratta con gli spazi di confine?

RS: Sono molto interessato al rapporto tra le persone e il loro ambiente, in particolare nei centri urbani, e l’architettura è uno dei più evidenti esempi della civilizzazione all’opera. Gli edifici, solo per la quantità di spazio che occupano, in qualche modo esigono la nostra attenzione. Anche la più umile delle strutture è densa di informazioni, con la propria personalità e la sua storia. In relazione con altri edifici poi, le possibilità si moltiplicano.

Gli spazi di confine, i limiti delle città, sono le più evidenti manifestazioni della tensione tra natura selvaggia e civilizzazione e sono inevitabilmente attratto al fotografare lì. Sono interessato alla persistenza del selvaggio nonostante la “civilizzazione” e allo stesso tempo all’effetto dell’azione dell’uomo sulla natura.

 

© Rob Stephenson from ‘There Swept out of the Sea a Song’

© Rob Stephenson from ‘There Swept out of the Sea a Song’

© Rob Stephenson from ‘There Swept out of the Sea a Song’

© Rob Stephenson from ‘There Swept out of the Sea a Song’

© Rob Stephenson from ‘There Swept out of the Sea a Song’

© Rob Stephenson from ‘There Swept out of the Sea a Song’

 

A/À: In riferimento al suo libro ‘From Roof to Table’. Dove si trova il nesso tra New York, il contesto locale dove è stato realizzato il lavoro, e il suo significato? Sta commentando la società, la cultura contemporanea o la cultura consumista?

RS: From Roof to Table, documentando gli sforzi di agricoltura urbana a New York, costituisce un indice visuale di diversi approcci all’agricoltura auto-sostenibile in un ambiente urbano. Il progetto è il risultato di una borsa di studio da parte del Design Trust for Public Space, un’organizzazione no-profit che studia e lavora al miglioramento degli spazi pubblici di New York. Mi hanno incaricato di fotografare il movimento agricolo urbano in città e per un anno ho visitato fattorie e giardini locali coinvolti dalla produzione agricola. Ciò che il progetto mostra più chiaramente, almeno secondo me, è la capacità di adattarsi. Il progetto si concentra sull’incredibile abilità che le persone hanno di adattarsi all’ambiente che le circonda e di trasformarlo. Uno degli aspetti dell’agricoltura urbana che trovo più interessanti è il come questa riporti la natura nella città, ribaltando il paradigma secondo cui l’agricoltura è solamente una pratica rurale e le città sono incapaci di auto-sostenersi.

 

© Rob Stephenson from ‘Urban Agriculture’

© Rob Stephenson from ‘Urban Agriculture’

© Rob Stephenson from ‘Urban Agriculture’

© Rob Stephenson from ‘Urban Agriculture’

© Rob Stephenson from ‘Urban Agriculture’

© Rob Stephenson from ‘Urban Agriculture’

A/À: La morfologia del territorio, l’infrastruttura, la nuova relazione gerarchica tra città e campagna, l’ecologia delle città, i cambiamenti climatici, l’inquinamento hanno contribuito a modificare la percezione che abbiamo del mondo e chiaramente anche la rappresentazione da parte della fotografia di paesaggio contemporanea. Fino a che punto il suo lavoro rappresenta e riflette il presente? Quanta importanza assumono per lei gli aspetti sociali, economici o politici di ciò che espone?

RS: Il mio lavoro è necessariamente una riflessione sul presente, sia nei termini di ciò che fotografo sia per quanto riguarda ciò che mi motiva a scattare una fotografia. Allo stesso tempo non utilizzo intenzionalmente la mia fotografia per criticare o commentare una questione in particolare. Sono refrattario ad attribuire una qualche importanza sociale o politica al mio lavoro. La mia motivazione principale è la mia curiosità e il fine è quello di fare fotografie e progetti interessanti.

 

© Rob Stephenson from ‘Transformations’

© Rob Stephenson from ‘Transformations’

© Rob Stephenson from ‘Transformations’

© Rob Stephenson from ‘Transformations’

 

A/À: I frammenti di memoria, le tracce, l’accumularsi e sedimentarsi di strati della città contemporanei su quelli passati. Mi sembra che questo si leghi alla sua lezione sui punti di vista urbani e la rappresentazione della città e del suo paesaggio culturale. Può spiegarci meglio?

RS: Oltre metà della popolazione mondiale oggi vive in aree urbane e in 30 anni questa percentuale si avvicinerà al 70%. Le città si adattano a questa crescita esponenziale espandendosi in altezza e oltrepassando i propri confini, ridefinendosi nel corso di questo processo. Le discariche diventano abitazioni di lusso. Quelle che un tempo erano ville sono abbandonate al degrado. Tetti di magazzini sono convertiti alla produzione alimentare. E’ un costante e necessario processo di reinvenzione. Sono interessato a questa evoluzione repentina e ad osservare l’accumularsi dell’evidenza del progresso umano, mentre le vestigia della città che fu restano a malapena visibili sotto la superficie di quella nuova.

 

© Rob Stephenson from ‘Myths of the Near Future’

© Rob Stephenson from ‘Myths of the Near Future’

© Rob Stephenson from ‘Myths of the Near Future’

© Rob Stephenson from ‘Myths of the Near Future’

A/À: “Le persone possono abitare qualsiasi cosa. E possono essere miserabili o felici in qualsiasi cosa. L’architettura ha sempre meno a che vedere con questo. Ovviamente, questo è da un lato liberatorio e allo stesso tempo allarmante. Ma la città generica, la generale condizione urbana, sta accadendo ovunque e solo il fatto che accada in quest’enorme quantità deve voler dire che è abitabile. L’architettura non può fare ciò che la cultura stessa non riesce a fare. Diciamo di voler creare bellezza, identità, qualità, individualità. E invece, forse sono proprio queste città che abbiamo ciò che in realtà desideriamo. Forse proprio il loro essere anonime fornisce le condizioni migliori per viverci.”
Rem Koolhaas — intervista su Wired, luglio 1996

E’ coinvolto e interessato all’architettura contemporanea? Quali sono gli architetti il cui lavoro la entusiasma in questo momento?


RS: Non sono particolarmente competente in merito agli architetti e all’architettura contemporanea. Detto questo, penso che Shigeru Ban e Todd Saunders stiano entrambi facendo cose interessanti.

Quando fotografo un posto nuovo sono principalmente attirato dalla sua architettura vernacolare. Le particolarità degli edifici che provengono dalla tradizione e dai bisogni locali sono molto più capaci di rivelare la vera identità di un luogo. Trovo che gli edifici contemporanei siano interessanti soprattutto quando sono giustapposti con l’architettura che li circonda.

 

© Rob Stephenson from ‘Myths of the Near Future’

© Rob Stephenson from ‘Myths of the Near Future’

A/À: Il colore è parte del suo linguaggio espressivo. Perché ha fatto questa scelta? Com’è cambiata la percezione collettiva sul colore e sul suo significato?

RS: Prima degli anni ’60, il colore era in larga misura dominio esclusivo dei fotografi commerciali o di chi fotografava come hobby. Storicamente, la mostra di William Eggleston del 1976 al MOMA è vista come il momento chiave in cui le opere a colori vennero considerate seriamente alla pari del bianco e nero come un possibile medium per la fotografia d’autore. Chiaramente molti fotografi d’arte lavoravano già con pellicole a colori prima di allora. Joel Meyerowitz ha del materiale che ha prodotto fotografando in Europa alla fine degli anni ’60 utilizzando due macchine fotografiche, una caricata con pellicola in bianco e nero e una a colori, e ha scattato le stesse scene utilizzando entrambe. E’ passato al colore dopo quel viaggio perché secondo lui il colore, in confronto al bianco e nero, “descriveva le cose in maniera più elegante”.

Quando ho iniziato io, tutti i fotografi che ammiravo scattavano a colori quindi non ho mai pensato a non fare altrettanto. Ovviamente, visto il prezzo di una pellicola a colori ai giorni nostri, scattare in bianco e nero mi attira di più e in realtà ho cominciato da poco a fotografare satelliti con la pellicola Fuji Acros ed è stato un bel cambiamento!

 

© Rob Stephenson from ‘Myths of the Near Future’

© Rob Stephenson from ‘Myths of the Near Future’

A/À: Di cosa tratta il suo progetto attuale? Quali sono i suoi piani per il prossimo futuro?

RS: Sto lavorando a un progetto vagamente basato sulla chiusura del programma Space Shuttle e l’impatto di questa chiusura sulle comunità attorno al Kennedy Space Center.

 

Gianpaolo Arena è architetto e fotografo, sviluppa progetti di ricerca su tematiche ambientali, documentarie e sociali. L’interesse per la rappresentazione architettonica ha orientato la sua attenzione verso la fotografia di architettura, il paesaggio urbano, l’uso della fotografia come indagine del territorio antropizzato, le relazioni sulle molteplici identità che appartengono e caratterizzano luoghi e persone. Editore del progetto CALAMITA/À e del magazine Landscape Stories con cui coordina campagne fotografiche sul territorio, workshops, progetti editoriali ed espositivi.

Traduzione a cura di Michela Leoni

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