Delicate Balances
Intervista a cura di Marina Caneve per CALAMITA/À
Matthieu Gafsou (Svizzera, 1981) vive e lavora a Losanna. Dopo una formazione universitaria (Master of Arts in filosofia, letteratura e cinema), ha studiato fotografia presso la School of Applied Arts di Vevey. A partire dal 2006, ha partecipato a numerose esposizioni collettive e personali e pubblicato quattro libri. Nel 2009 ha ricevuto il famoso “Prix de la fondation HSBC pour la photographie” ed è stato selezionato nel 2010 per la mostra reGeneration2. Dal 2012 insegna all’Università di Arte e Design di Losanna (ECAL). Nel 2014 ha realizzato la prima mostra personale in una istituzione di calibro mondiale, il Musée de l’Elysée, esponendo la serie Only God Can Judge Me.
CALAMITA/À: Il suo percorso è iniziato con lo studio della filosofia, della letteratura e del cinema. Che cosa l’ha spinta a cambiare per la fotografia? In che modo questi studi possono aver influenzato il suo modo di fotografare e quali sono i riferimenti per lei più importanti?
Matthieu Gafsou: Non si è trattato di un vero cambiamento. Ho scoperto la fotografia da amatore, durante i miei studi universitari e da hobby divenne una necessità. Era evidente che volevo diventare un fotografo. Penso di essere stato fortunato ad aver studiato altro, e non arte o fotografia, perché i miei studi mi hanno dato un background che non è direttamente collegato alla mia attività, ma che può nutrirla. D’altra parte però gli artisti erano letteralmente idolatrati all’Università ed era davvero difficile per me pensare che avrei potuto essere uno di loro. Inoltre non avevo troppo senso pratico e dovevo imparare molto. I miei riferimenti sono diversi per ogni progetto (mi piace fare ricerca, mi rassicura). Ma per me è stato veramente fondamentale studiare filosofia: credo mi abbia aiutato a imparare a leggere e a preparare un progetto.
A/À: Come lei saprà, il nostro è un progetto site-specific sulle Dolomiti, quindi il nostro interesse è principalmente rivolto al paesaggio di montagna. Facendo riferimento al progetto « Alpes », che cosa la attrae delle montagne? In che modo è ancora possible lavorare sul sublime? Ci sono molti fotografi affermati il cui lavoro riguarda le montagne (dal punto di vista paesaggistico, energetico, turistico…). Quali sono quelli che lei predilige?
MG: La cosa che mi ha attirato è stata probabilmente la sfida di trovarmi ad avere a che fare con un soggetto molto popolare, che è parte di una identità culturale, del posto in cui vivo. Mi piace anche l’idea di un «soggetto classico». Ma l’idea del progetto mi venne in…Scozia, durante le vacanze. In quell’occasione avvertii che la mia presenza e quella degli altri turisti stava minacciando proprio quello che stavamo cercando: un’esperienza del paesaggio solitaria e «autentica» (si tratta forse di un mito? Di un aspetto commerciale?).
Riguardo al sublime si tratta ovviamente di un concetto teorico ma prima di tutto è un’esperienza. In qualità di «fruitore della montagne», ho avvertito che le mie sensazioni venivano compromesse dalle altre persone, dalla folla intorno a me. Ma volevo anche continuare a credere che qualcosa di puro fosse possibile, che il momento di una reale esperienza di paesaggio potesse accadere. Questo è stato il punto di partenza concettuale del mio progetto, questi due aspetti contraddittori…Ho molti artisti in mente mentre porto avanti il mio progetto. Ovviamente i romantici (Turner, Friedrich, Carus, Cozens…) ma anche molti fotografi (Benoit Vollmer, Yann Gross, Raphael Hefti, Joël Tettamanti…). Sono stato influenzato anche dai teorici del paesaggio (Alain Roger, Michaël Jakob, Augustin Berque, Marc Augé) che ho cercato di considerare sempre nel mio progetto.Ovviamente avevo in mente Walter Niedermayr e Martin Parr, ma è talmente ovvio che potrebbe non essere rilevante.
A/À: C’è un interesse per la geopolitica, la politica e l’economia nella scelta dei suoi progetti? Che posto occupa la religione?
MG: Devo ammettere che il modo in cui scelgo i miei soggetti non è totalmente razionale. C’è una componente di affinità elettive, ovviamente, inoltre devo considerare il potenziale visivo del progetto ma poi devo fermare la fantasia e iniziare a fare ricerca. Leggo, provo una prima immagine (spesso non raggiungo nemmeno questa fase del processo) e dubito, esito…Per rispondere alla tua domanda, beh, tutto è legato alla politica. Alcuni miei progetti sono collegati anche alla geopolitica e all’economia, ma non necessariamente. Riguardo la religione, diciamo che ritengo ci sia una analogia tra l’arte e il sacro…Ecco perché ho realizzato un progetto specifico legato alla chiesa cattolica in un cantone svizzero, Friburgo. Ma tutti i miei progetti hanno a che vedere, direttamente o indirettamente, con la questione del sacro e della sua scomparsa.
A/À: A proposito del suo lavoro Surfaces leggo: « Matthieu Gafsou ricerca la coerenza nell’incoerenza di un paese » (Olivier Saillard in Surfaces, pubblicato da Actes Sud e da Prix de la fondation HSBC pour la photographie). Mi interessa molto questo questo aspetto…voglio dire, non solo la coerenza ma anche l’incoerenza è molto importante in fotografia. Lei come si avvicina ad un territorio, alle sue storie segrete, alle sue incoerenze?
MG: Il rischio, quando si intraprende un progetto, è che la ricerca della coerenza (in termini di stile, soggetti, estetica) lo renda uniforme. E mi piace molto l’idea che niente si possa ridurre a qualcosa di semplice. Più vai a fondo, più le cose si complicano. L’incoerenza è una questione filosofica. Il mondo è assurdo, l’incoerenza è ciò che sperimentiamo ogni giorno. Ho bisogno che faccia parte dei miei progetti. Mentre lavoro, io cerco solo di essere onesto, di ammettere che la mia naturale inclinazione a rendere le cose omogenee è sbagliata. Combatto contro una linearità rigida. Ma ho anche bisogno che il progetto sia coerente in qualche modo. Si tratta di un equilibrio delicato. Per esempio, nella serie « Surfaces » ho usato degli schemi tonali. Il bianco per l’irruzione della modernità, il grigio per le rovine e il giallo (il deserto…) per il silenzio e i luoghi più strani.
A/À: Nei tuoi ultimi progetti, ha iniziato ad affiancare gli oggetti alle persone e ai paesaggi. Qual è la relazione che si instaura tra la memoria e gli oggetti? Quale la ragione che l’ha spinta ad iniziare a fotografare oggetti?
MG: A dire il vero, non penso di aver iniziato a fotografare oggetti con in mente un concetto come la memoria. Un fotografo dovrebbe essere interessato ad una tale questione, ma io non lo sono. Per me si trattava piuttosto di documentare degli oggetti che sono legati a un certo tipo di rituali. Persino un laccio emostatico è collegato ad un rituale e questo era essenziale per me. Perché che si tratti di religione o di dipendenza da droghe, siamo sempre alla ricerca di una struttura, di un senso. Gli oggetti hanno anche una funzione ritmica nelle mie serie. Di recente mi sono interessato sempre di più al modo in cui una serie può funzionare ed era fondamentale per me avere a che fare con diverse tipologie di fotografie. Quindi gli oggetti hanno anche la funzione pratica di spezzare la linearità di una serie basata su paesaggi e ritratti.
A/À: Il 9 ottobre 1963, alle 22:39, 269 milioni di metri cubi di roccia si staccarono dalla cima del Monte Toc, al confine tra Veneto e Friuli Venezia Giulia e si riversarono nel bacino della diga del Vajont, producendo un’onda enorme, di almeno 50 milioni di metri cubi di acqua. La diga, completata nel 1959, una delle più grandi del mondo all’epoca, non subì nessun danno serio. Tuttavia, l’inondazione distrusse numerosi villaggi nella valle e provocò la morte di quasi 2000 persone. Un terzo della popolazione di Longarone, il villaggio più grande a valle della diga, perse la vita (informazioni tratte dal sito ‘The Environment & Society Portal’).
In Terres compromises lei ha scritto : « queste terre sembrano non avere storia ». Riguardo Calamita/à, la presentazione del nostro progetto dice che i territori del Vajont sono congelati in un eterno presente. Che approccio ha lei al trauma?
MG: Questa domanda apre a moltissime questioni! Questa idea di un eterno presente descrive perfettamente il nostro tempo e in particolare il tempo occidentale, fondato sul consumo. Il fatto storico diventa un divertimento e non ha conseguenze significative sulle nostre vite di tutti i giorni (le crisi finanziare incidono, ma sono ricorrenti e sembrano una fatalità, una normalità).
È davvero banale, ma sento di vivere in un momento a-storico della storia.
Riguardo al trauma, anche se non avevo pensato al mio progetto Terres compromises in questi termini, devo ammettere che potrebbe essere un’idea davvero forte. Ho avvertito che una parte specifica della società israeliana vive in un mondo nichilista, dove il divertimento, il piacere, la bellezza, la festa sono fondamentali. Ma potrebbe trattarsi di un modo per fuggire l’ansia legata alla situazione di guerra. Il popolo palestinese, che si confronta quotidianamente e in maniera più diretta con la guerra, non ha questo rapporto bizzarro con il mondo. Beh, si tratta del modo in cui io ho visto i due paesi e non pretendo di voler dire delle verità.
A/À: Il turismo è spesso presente nei luoghi del trauma. Ci sono delle considerazioni che lei ha voglia di condividere con noi a proposito del turismo che ha osservato e fotografato, nelle Alpi, in Israele o in Palestina?
MG: Ovviamente questa domanda è più interessante se si parla di Israele o della Palestina. Il turismo rivela la totale assurdità di questa guerra. Le persone muoiono ma noi continuiamo a visitare quei luoghi come se andassimo in luoghi di pace. Le cose sembrano tranquille e normali. Mostrare i turisti nelle mie foto mi aiuta anche a ricordare quello che sono: uno straniero. Uno straniero rispetto alla cultura che incontro. Rispetto alla vita quotidiana dei paesi che visito. Quindi, devo sempre tenere a mente che le mie sensazioni potrebbero orientarmi verso direzioni sbagliate.
Quando sono lì, sono un turista, anche se fingo di essere un fotografo o un artista.
A/À: Una delle foto di questo progetto rappresenta il Muro del Pianto, una sorta di simulacro. Qual è il suo approccio a questo tipo di soggetti? Perché è stato necessario introdurre questa immagine nel suo lavoro?
MG: Per il suo valore simbolico. Praticamente tutti sono in grado di riconoscerlo e di identificarlo. Ma il mio punto di vista rende questo luogo una sorta di palcoscenico. Quindi il simbolo diventa, come lei dice, un simulacro. Mi piace pensare che non possiamo mai realmente capire cosa sia reale e cosa no. Questo luogo rappresenta anche un’attrazione turistica e per me è stato importante, per quanto assurdo fosse uno dei temi principali del progetto Terres compromises, di ricordare che si tratta di un posto ad alto valore simbolico, a pochi passi dalla Spianata delle Moschee (che cristallizza in un simbolo il conflitto tra Palestina e Israele) e che allo stesso tempo era anche un oggetto di divertimento.
Il turismo di massa annulla il valore simbolico delle cose.
A/À: Penso che oggi una delle poche possibilità che si hanno di parlare di situazioni difficili senza ricadere del reportage sia quella di «estetizzare». Potrebbe dirci la sua opinione a questo riguardo?
MG: Credo che lei abbia ragione. Ma è una questione davvero complessa. Per esempio, consideriamo la mia serie Surfaces : anche se oggigiorno non la rinnego totalmente, devo ammettere che le mie scelte estetiche hanno reso le immagini conformi a uno schema dominante che può essere ricollegato alla globalizzazione. Non ero cosciente di seguire la visione chiara, bianca e nitida di gruppi come la Apple o le banche svizzere, per esempio.
Per me il bianco era il modo di mostrare il simulacro, di esprimere l’idea secondo cui la realtà è contaminata dalla finzione.
Quindi sì, estetizzare è un buon modo per isolare alcune cose dal caos ma occorre farlo con attenzione.
Un altro esempio : nella mia ultima serie, Only God Can Judge Me, che parla della realtà dei tossicodipendenti, ho scelto di decontestualizzare i ritratti e conferire loro un carattere pittorico, per richiamare l’umanità dei modelli. Ma sono stato attaccato da alcuni che pensavano che io non avessi il diritto di ritrarre quelle persone in quel modo perché la verità (ma che cosa significa?) era molto diversa. Perché avrei dovuto mostrare i tossicodipendenti in un ambiente tossico.
A/À: La città di La Chaux-de-Fonds fu devastata da un incendio nel 1794 e in seguito ricostruita sul modello a scacchiera delle città americane moderne. La città ha avuto la possibilità di vivere una seconda vita. Secondo lei, è possibile e importante per la fotografia parlare della storia? E in che modo?
MG: In questo caso, mi sono rifiutato di mostrare la pianta a scacchiera. Oppure l’ho fatto in maniera molto discreta. Ho anche evitato le costruzioni di Le Corbusier (nato proprio a La Chaux-de-Fonds, dove realizzò i suoi primi progetti). Oggi la città si trova in una posizione molto periferica e lotta contro la disoccupazione.
Ero piuttosto incuriosito (e mosso) dalla tristezza geometrica di questa città e dallo strano e forte sentimento che provavo quando ero lì. Quindi in questo caso, più che di storia si tratta di esperienza. Ma conoscere la storia della città mi ha aiutato a mostrarla in un modo a-storico.
A/À: Su cosa sta lavorando attualmente? Cosa c’è in cantiere per il 2015, da un punto di vista fotografico, ma non solo?
MG: Sto lavorando a un progetto per il quale ci vorranno 2 o 3 anni perché sia concluso. Proprio ora ho realizzato alcune immagini astratte di fasci luminosi e di scie nel cielo… Ma ancora non mi sto occupando del fulcro di questa serie, che si chiama Ether. Si tratta di un prologo. Il progetto parlerà di scienza e delle fantasie cui essa induce oggi.