Immagini per pensare la catastrofe. Dialogo su fotografia e presentismo.
Intervista di Roberta Agnese per CALAMITA/À
François Hartog, storico francese di fama internazionale, esperto della Grecia antica, insegna storiografia moderna e contemporanea all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi. Ha contribuito alla formazione e alla diffusione del concetto di presentismo e di quello di « regimi di storicità ». Ex allievo dell’Ecole Normale Supérieure e dello storico Jean-Pierre Vernant, lettore di Reinhart Koselleck, i suoi lavori più recenti si concentrano sulle esperienze contemporanee del tempo, e in particolare sul tema della temporalizzazione del tempo e sulle nozioni di apocalisse e catastrofe. Ha diretto per il museo del Louvre il ciclo di incontri « Profezia, apocalisse e tempo », durante il quale si è occupato delle allegorie catastrofiche della storia nella storia dell’arte. Tra i suoi libri in italiano ricordiamo : Lo specchio di Erodoto (Milano 1992); Memoria di Ulisse. Racconti sulla frontiera nell’antica Grecia (Torino 2002); Regimi di storicità. Presentismo e esperienze del tempo (Palermo 2007). Quest’anno è intervenuto al FestivalFilosofia di Modena sul tema del « Primato del contemporaneo ».
Time and Heritage
CALAMITA/À: In quanto storico, lei ha riflettuto sul tempo, materia prima della storia, concetto che ne forgia il tipo di conoscenza ma che tuttavia resta « esteriore » alla disciplina e che, al tempo stesso, incrocia altri saperi e altre pratiche. Lei ha soprattutto approfondito nozioni e concetti che determinano e caratterizzano il nostro rapporto con il tempo e con la storicità, in quanto esseri umani « nel tempo », per riprendere la sua citazione di Proust. Tra questi concetti che contribuiscono ad una temporalizzazione del tempo, lei ha accordato un’importanza speciale a quelle nozioni che potremmo definire degli strumenti per forgiare il tempo, come la catastrofe e l’apocalisse. In che modo le nozioni di catastrofe e apocalisse strutturano e danno forma al tempo e che incidenza hanno sul mondo di oggi?
François Hartog: Apocalisse e catastrofe esistono per noi da molto tempo, malgrado ciò uno scarto tra le due nozioni esiste. L’apocalisse arriva, se posso dire così, prima della catastrofe. La sua tematizzazione appare in un contesto preciso, che è quello del giudaismo ellenico e degli albori dell’era cristiana. La portata dell’una e dell’altra nozione, apocalisse e catastrofe, non è la stessa. L’apocalisse, nel suo primo uso, è quella che ritroviamo nel libro di Daniele, che risale al II secolo a.C.. A partire da un contesto di crisi, quello dell’occupazione del Tempio e del sacrilegio commesso dal re Antioco, che praticò dei sacrifici secondo le usanze greche, gli Ebrei, o almeno un certo numero di essi, non vedevano altra uscita che quella del sopraggiungimento della fine. Ovvero la fine di questa storia negativa, di questo tempo cattivo dell’ « abominio della devastazione », secondo l’espressione utilizzata. Non vedevano altra via d’uscita che un cambiamento totale, un rinnovamento completo e l’inizio di qualcos’altro. Quindi, l’apocalisse è ciò che « viene », ciò di cui si spiano i segni precursori, poiché tutto il problema consiste nel sapere « quando? ». Da qui deriva tutta la frenesia di calcolo degli apocalittici : fino a quando durerà questo tempo di dolore? Per quanto tempo ancora ci saranno sofferenze e persecuzioni? Questo rinnovamento significa l’instaurazione di un mondo altro, « di un’altra terra, di un altro cielo », che in un certo senso ci si vieta di rappresentare. Si sa che sarà completamente altro, e l’apocalittico si spinge fino al limite dello sprofondamento e del rinnovamento. Egli ha la fortuna di essere colui che conosce la via d’uscita, egli è colui che può comprendere, alla luce dello svelamento, della « rivelazione », tutto quello che è accaduto prima e conferirgli senso.
Nel corso dei secoli, si è avuto ogni tipo di uso più o meno asettico o eufemistico dell’apocalisse, poiché si tratta di uno schema che non ha mai smesso di funzionare attivamente in tutta la storia occidentale, con dei momenti di riattivazione e d’intensificazione, che corrispondono evidentemente a dei periodi di crisi, quando dei gruppi che hanno la convinzione di vivere in situazioni senza via d’uscita, ovvero senza altra uscita che non sia un capovolgimento totale, che condurrà alla sconfitta dei malvagi e alla rivincita dei vinti. Quindi, questo pensiero apocalittico è là, presente in forme diverse a seconda delle epoche, e sempre utilizzabile. Così, lo schema rivoluzionario moderno ha ritenuto qualcosa di questa struttura apocalittica, con la visione della rivoluzione come « grand soir » e nuova aurora. Allo stesso modo in cui gli apocalittici si sono chiesti se fosse possibile di accelerare la fine, i rivoluzionari hanno aspramente discusso la possibilità di sapere se fosse possibile o no accelerare l’avvenimento della Rivoluzione.
La catastrofe è un’altra cosa: l’apocalisse, in principio, avviene una sola volta, anche se oggi abbiamo apocalissi tutte le mattine o quasi, o delle situazioni dette apocalittiche, con un uso degradato e triviale della nozione. Ma, in principio, essa non può accadere che una sola volta, ed è quella buona! La catastrofe no, essa si ripete, e ciò fa parte della sua stessa natura, non siamo mai in pari. Ed è proprio così che viene percepita nelle nostre società. Difatti, da una ventina d’anni, si parla correntemente di un tempo delle catastrofi, o dell’era delle catastrofi, in cui saremmo entrati. Quindi la catastrofe (contrariamente all’apocalisse, che temiamo ma che speriamo anche accada in quanto capovolgimento e liberazione) proviamo ad evitarla, a prevenirla, o meglio, ad impedirla. Nel nostro mondo, nel nostro tempo, noi sappiamo che la catastrofe è là, che essa corrode, e che il meglio che possiamo fare è, ancora una volta, prepararci a… È questa la tematica del « catastrofismo illuminato », teorizzato da Jean-Pierre Dupuy, secondo il quale la catastrofe è cosa certa, che sia climatica, sanitaria, nucleare o altro; è certa ma noi non ci crediamo. Quello che dobbiamo fare è comportarci come se essa fosse già qui e agire da subito di conseguenza. Si tratta evidentemente di una prospettiva completamente differente da quella dell’apocalisse e la « promozione », se posso dire così, della catastrofe è un tratto caratteristico della nostra contemporaneità. A differenza dell’apocalisse che, in funzione delle prospettive religiose di cui è carica, aveva un senso e conferiva senso a tutto ciò che era avvenuto prima e a tutto ciò che sarebbe seguito poi, la catastrofe in fondo non ha un senso: essa è principalmente, in senso etimologico, ciò che ci precipita addosso. Quello che ci aspettiamo dai poteri pubblici, o dai vari responsabili, è innanzitutto che reagiscano il più rapidamente possibile alla catastrofe, non appena essa accade, ma senza veramente cercare di comprendere cosa sia effettivamente.
Per me, questa attitudine è legata al presentismo, ovvero alla dominazione della categoria del presente. La catastrofe non si iscrive nella temporalità futurista dello sviluppo e del progresso dell’umanità. Quando la catastrofe diventa l’orizzonte, non siamo più in questa prospettiva. Ciò che conta, è il tempo di reazione ad essa. È la corsa a chi sarà il primo a reagire, a trovarsi sui luoghi. La strategia tende a ridursi ad una strategia di comunicazione. Basta considerare il modus operandi dei politici. Occorre inoltre intraprendere un « lavoro del lutto », secondo la celebre formula, perché si possa passare rapidamente ad altro. Aspettando la catastrofe successiva.
A/À: Il progetto CALAMITA/A’ riguarda la catastrofe del Vajont. Il 9 ottobre del 1963, alle 22:39, uno smottamento del terreno provocò una valanga di terra e roccia di 260 milioni di metri-cubi, che si riversarono nella diga. Due onde di 25 milioni di metri-cubi di acqua si riversarono a valle, oltre la diga. Questa immensa massa d’acqua distrusse la località di Longarone e altri villaggi nei dintorni. Si stimano all’incirca 1900 vittime, mentre la diga non subì alcun danno. Come possiamo leggere sul sito del progetto, questo disastro idrogeologico ha « congelato il tempo in un eterno presente » e ha cambiato per sempre la configurazione del territorio e la vita delle persone. Un eterno presente sembra essere la condizione temporale caratteristica di un’era post-apocalittica o post-catastrofica ma, come Lei sottolinea nelle sue riflessioni sul presentismo, un « presente onnipresente » si impone anche come « l’unico orizzonte possibile » nel regime di storicità nel quale viviamo oggi. Viviamo forse in un contesto post-apocalittico senza realmente rendercene conto? Oppure, se una distinzione esiste tra una temporalità del prima e una del post, siamo piuttosto in una condizione di attesa della catastrofe? In che modo queste temporalità interagiscono con i corpi, le società, i paesaggi?
FH: Si, anche se in un certo senso è più post-catastrofico che post-apocalittico. Ma ancora una volta, incontriamo tutti questi usi, più o meno degradati, della nozione di apocalisse, come abbiamo appena detto. Questa formula del « tempo congelato » è interessante. Si prenda ad esempio Hiroshima. Si tratta senza dubbio di una catastrofe – ma si è parlato anche di apocalisse – e ad Hiroshima, nel sito della catastrofe, vi è ancora l’orologio fermo ad indicare l’ora del bombardamento. Ecco, lì il tempo si è fermato per sempre. E ancora, a proposito di questo tempo congelato e delle questioni che esso solleva, penso a questo villaggio francese, Oradour-sur-Glane, nel Limousin. Questo villaggio fu interamente distrutto il 10 giugno del 1944 e i suoi abitanti assassinati da una colonna della divisione SS « Das Reich », che risaliva verso il Nord, in direzione della Normandia. Questa divisione si fermò nel villaggio e in un niente ha incendiato il villaggio e ucciso tutti i presenti, ovvero 600 persone. Subito dopo questo evento, è stato deciso di conservare le rovine così com’erano. Ecco, l’idea di congelare il tempo è ben presente, così come quella di conservare il sito, perché possa servire da testimonianza: queste rovine devono testimoniare della barbarie nazista. Ma come fare, legalmente e praticamente? Il solo modo di procedere fu di quello di approvare una legge che classificasse tutto il sito, delle rovine deserte, come une « monumento storico », con l’obbligo di conservarle allo stato di rovine, esattamente così come erano all’indomani del 10 giugno. Ma come conservare le rovine allo stato di rovine? Occorre occuparsene, contro l’usura del tempo, delle intemperie, etc. Ciò vuol anche dire che bisogna evitare che si trasformino in rovine romantiche? Anche questo tipo di questioni sorgono attorno ad un luogo in cui avvenne una catastrofe. Cosa fare dunque? Lasciamo le rovine allo stato di rovine, ma questa scelta implica comunque un intervento. Ma fino a che punto intervenire? Meglio forse ricostruire, ma allora, o si restaura tutto esattamente come era, oppure si distrugge tutto per ricostruire interamente. Ma cosa? La stessa cosa o un’altra? Ogni volta, queste decisioni implicano anche delle operazioni sul tempo: qual è il tempo cui facciamo appello? Vogliamo forse rimanere in un questo presente fissato, quello delle lancette ferme dell’orologio? Per rimanere allo stato di rovina, Oradour-sur-Glane ha dovuto essere restaurata numerose volte, mentre un nuovo villaggio veniva costruito accanto. Allora, come permanere nel presente della catastrofe? Come negoziare con questo imperativo, formulato dal legislatore nel 1945, mentre gli anni passano e i testimoni, che hanno conosciuto la catastrofe, scompaiono?
A partire dal 1990, tutto ciò si è ritrovato risucchiato dal grande insieme del patrimonio. E infatti è stato costruito un centro della memoria, attraverso il quale bisogna ormai obbligatoriamente passare prima di accedere al sito stesso. Le rovine lasciate allo stato di rovine rischiano di diventare mute. Settant’anni dopo, le rovine sono diventate un luogo di memoria e la tappa di un percorso patrimoniale.
A/À: « Forse, guardandone la distruzione, finalmente sarebbero riusciti a vedere come era fatto il mondo. I mari, le montagne. Il poderoso controspettacolo delle cose che cessano di esistere. La sconfinata desolazione, idropica e gelidamente terrena. Il silenzio. » Queste righe sono tratte dal romanzo post-apocalittico « La Strada » di C. McCarthy. La produzione letteraria è ricchissima di esempi dello stesso genere (si pensi anche a Le quattro apocalissi di Ballard, ad esempio) e la storia dell’arte è anch’essa generosa di rappresentazioni dell’apocalisse, per non citare gli esempi cinematografici.
Un altro tipo di produzione artistica, che tenta di dare una forma e di comprendere il mondo che ci circonda, come la fotografia, si interessa al tema della catastrofe, considerandola una condizione caratteristica del nostro tempo, e questo secondo modalità diverse : vedere la distruzione del mondo (Robert Polidori), vedere nella distruzione del mondo, come il è fatto il nostro mondo (Ian van Coller) o ancora vedere e mostrare il tempo della distruzione (Wolfgang Tillmans e Hans-Christian Schink). Nei suoi corsi e nelle sue ricerche, lei cita spesso opere letterarie; inoltre ha recentemente diretto il ciclo di conferenze al Museo del Louvre sul tema « Profezia, apocalisse e tempo ». In questa occasione, lei ha parlato in particolare delle allegorie catastrofiche della storia. Quali sono le immagini che la aiutano a pensare questi concetti? Ci sono delle immagini che lei considera come corollari fondamentali per le sue ricerche?
FH: Nel caso di Tillmans, c’è l’intenzione di mostrare il momento, o l’istante piuttosto, della catastrofe. È forse una variante o una trasposizione dell’istante decisivo di Cartier-Bresson? Si tratta anche, ovviamente, di un artefatto, dal momento che consiste nel dare allo spettatore l’impressione (l’illusione) che egli veda in diretta l’istante in cui tutto accade (l’inizio di…). Avvicinarsi il più possibile al momento dell’accadimento e fermare la caduta, ovvero il tempo. Le immagini di Katrina (Polidori) sono concepite diversamente. Qui, siamo chiaramente dopo, nel disordine e nella devastazione, catturati in modi diversi, ma ciò che colpisce è l’assenza dell’elemento umano. Non ci sono che delle rovine e delle rovine molto diverse tra loro, e poi nessuno. Quindi, siamo nel tempo del dopo e non sappiamo più in fondo se qualcosa può ricominciare: una vita, ma quale? La prospettiva di Tillmans non è affatto la stessa. Egli vuole dare l’impressione dell’istante decisivo, bloccando la cascata o la valanga di neve. Sicuramente noi sappiamo che entrambe si schianteranno, ma se guardiamo solo la fotografia non lo sappiamo. Mi pare che il fotografo qui stia cercando di far vedere il momento dello sconvolgimento.
Con le immagini dello tsunami del 2011 siamo invece nuovamente nel tempo del dopo, nella devastazione e nell’assenza dell’umano. Quello che vediamo è un mondo distrutto: la vita del villaggio o della cittadina si trova catturata in questo arresto mortale.
In tutti i casi, mi sembra significativo che dei fotografi che tentano di catturare la propria epoca, mostrino proprio un tempo delle catastrofi. Ciò che essi vedono in questo momento e probabilmente ciò che noi ci aspettiamo che essi ci facciano vedere. O posizionandosi nel preciso momento in cui qualcosa accade, oppure appena dopo, e per gli uni come per gli altri abbiamo a che fare con un tempo arrestato. E si tratta o del quasi-presente della catastrofe, il momento in cui essa accade (almeno, è questo il modo in cui la mostrano), o del tempo del post, ma che è sempre un tempo arrestato, poiché non vi è più niente: solo rovine che senza dubbio si distruggeranno e crolleranno poco a poco. Non c’è apertura verso un futuro di ricostruzione.
Queste foto operano diversamente rispetto alle allegorie della catastrofe che ho inserito nel mio libro « Croire en l’histoire ». Il famoso « Angelo della Storia » di Paul Klee, per lo meno come lo vede Walter Benjamin, mostra una catastrofe in corso, ovvero una storia che, dall’inizio, non è che un accumulo di catastrofi. L’angelo vede questo corso catastrofico della storia ma, trasportato dal vento del Progresso, non si può fermare per compiere i riti funebri che sarebbero necessari. Dalla sua posizione dominante, egli percepisce ciò che potremmo chiamare il rovescio del regime moderno di storicità: non la gloriosa marcia in avanti dei Moderni, ma l’avanzata mano nella mano di progresso e barbarie. Per Benjamin, questo angelo di Klee collega catastrofe e apocalisse, denuncia il corso della storia, ma lascia aperta la possibilità di un’altra storia, che combini soffio messianico e ideale rivoluzionario. Poiché Benjamin non è affatto un cantore della fine della storia.
Con l’« Angelo della Storia » di Anselm Kiefer, abbiamo a che fare con qualcosa di differente. L’angelo si è trasformato in aereo, un bombardiere probabilmente, in piombo e in pessimo stato. Questo aereo non volerà di nuovo. È inchiodato al suolo. Possiamo scorgervi una forma meccanizzata e degradata dell’angelo di Klee. Possiamo persino pensare che abbia giocato un ruolo nell’accumulare le rovine della guerra. Per come Kiefer lo ha scolpito, abbiamo l’impressione che esso sia stato appena riesumato da uno scavo archeologico, testimone di un presente congelato, di una storia che credevamo passata ma anche di una catastrofe che ha effettivamente avuto luogo. Fissato al suolo, esso testimonia di un tempo arrestato. In questo senso, è più vicino a ciò che mostrano le foto che abbiamo visto – di cui abbiamo appena parlato – che all’Angelo di Benjamin. Esso esprime il tempo del dopo, riesumando un passato che si credeva passato ma che non lo era in verità, un passato che ritorna. Come vivere dopo la catastrofe, c’è ancora una storia possibile? Queste sono le domande che lo spettatore è portato a formulare.
Con la grande installazione di Liliana Porter, siamo ugualmente immersi nelle rovine: una lunga carrellata di rovine, di tipo e dimensioni molto differenti. Per farne un inventario occorrerebbe molto tempo (troviamo un pianoforte, ma anche la macchina di Kennedy a Dallas, una falce e un martello, dei nazisti e anche Mickey Mouse!). Il titolo dell’installazione è « L’uomo con l’ascia ». E infatti, ad una delle estremità, troviamo un piccolo personaggio che solleva un’ascia. Si tratta forse dell’autore di queste devastazioni? O semplicemente di qualcuno che non fa che eseguire il compito di distruggere meccanicamente ciò che già era stato distrutto in parte? Avanza o retrocede? Affronta il passato o volta le spalle al futuro? Quest’ascia, è l’ascia della Storia? Qualunque cosa sia, questa lunga carrellata di oggetti rotti, deteriorati, di distruzioni, mostra allo spettatore una sorta di storia più o meno confusa, ma la cui tonalità generale è chiara: storia materiale della modernità, storia produttrice di scarti e di rifiuti, storia delle violenze del XX secolo. Una storia in rovina. Per me, questa installazione di Liliana Porter, artista argentina che vive a New York, è anch’essa una variazione sul tema dell’Angelo della storia di Benjamin. Essa mostra concretamente questa visione della storia (che Benjamin ci dice essere quella dell’angelo) come accumulo di catastrofi. Con una degradazione aggiuntiva: l’Angelo vede tutto, egli ha una visione sinottica della storia, mentre l’uomo con l’ascia, che occupa una posizione analoga a quella dell’angelo, non vede niente, forse a malapena i suoi piedi, e probabilmente non sa niente di quel che fa e del perché lo fa. Nel caso di questa installazione, colui che può avere una visione sinottica è proprio lo spettatore. Ma da questa visione d’insieme, egli non riesce ad estrarre un racconto. Egli vede tutto, ma non comprende molto, a meno che non ci sia, in fondo, niente da capire. Da molto tempo ormai, la storia non ha senso e il tempo si è fermato. E qui non vediamo niente che sia suscettibile di rimetterla in cammino.
A/À: Spesso si dice che la fotografia può congelare l’istante e il tempo. In effetti, la fotografia è una pratica che mira direttamente al cuore del tempo, che è fatta della stessa materia di cui è fatto il tempo. Come sottolinea il fotografo inglese Paul Graham: « l’atto creatore al cuore della vera fotografia » sarebbe « nient’altro che misurare e ripiegare la stoffa del tempo » (Paul Graham, Presentazione di Paul Graham in occasione del primo MoMA Photography Forum, il 16 febbraio 2010). Misurare, ripiegare il tempo: questa espressione mi fa pensare al compito dello storico che esercita le sue funzioni, mi fa pensare alle sue riflessioni circa la temporalizzazione del tempo. Tutto questo non fa altro che ribadire la prossimità teorica tra storia e fotografia, sottolineata già da tempo (Kracauer, Barthes, Chéroux, Rancière), e mostra inoltre che la fotografia non solamente può farci vedere il passato, ma che essa può allo stesso tempo permetterci di « pensare » la storia. Che cosa ne pensa Lei di questa prossimità teorica, in quanto storico?
FH: Per molto tempo, non me ne sono direttamente occupato o preoccupato, perché ho principalmente lavorato su dei periodi in cui la fotografia, semplicemente, non esisteva. Ma, allo stesso tempo, mi sono sempre interrogato sulla dimensione del vedere e del visibile. « Ce que voient les historiens » (Quello che gli storici vedono, ndt) è il sottotitolo del mio libro « L’evidence de l’histoire » (L’evidenza della storia, ndt). Per lo storico, la dimensione del visibile è sempre stata importante, soprattutto dal momento in cui i Greci hanno fatto della vista lo strumento principale della conoscenza. La questione del vedere si raddoppia con quella del far vedere, del mostrare. Lo storico, come il fotografo, vede per far vedere ad un lettore o ad uno spettatore una scena, un luogo, un personaggio, etc. Con una differenza: spesso, lo storico mostra ciò che egli non ha (direttamente) visto, senza pretendere, senza far credere che lo abbia visto. A differenza del romanzo storico, per esempio. Si tratta di un punto importante del suo lavoro. Far vedere, ma senza usurpare la posizione del testimone oculare che non è stato.
Oggi si privilegia molto la storia contemporanea, la storia del presente, la storia immediata e quindi le immagini (visibili istantaneamente); lo scarto tra la posizione dello storico e quella del fotografo tende a ridursi. Lo storico non può ignorare le immagini e tutti possono diventare fotografi. Più in generale, ci troviamo a vivere un periodo in cui il testimone oculare è divenuto un personaggio centrale. Non ci sono reportage o trasmissioni televisive senza testimoni. Sono nati diversi dibattiti per sostenere che dello storico, in fondo, non abbiamo bisogno, che egli non è che un parassita e che ciò che vogliamo è il faccia a faccia diretto e drammatico tra il testimone e il lettore o lo spettatore, senza che vi sia alcun intervento o la mediazione di un terzo che confonde le cose e introduce della distanza. Questa valorizzazione dell’immediatezza e dell’autenticità ha conferito, allo stesso tempo, un posto centrale all’immagine fotografica. Poiché essa è la prova che qualcosa « è stato », che « è avvenuto » (nonostante l’apertura concomitante del vasto campo delle immagini truccate o ritoccate). Al tempo dell’ Histoire méthodique del XIX secolo, il testimone era nel migliore dei casi una fonte. Oggi ci si aspetta dallo storico che si sforzi non soltanto di cancellare la propria presenza davanti al testimone, ma anche di vedere le cose come le vede quest’ultimo, nella misura del possibile, di mostrare ciò che il testimone stesso ha visto. Lo storico rischia allora di trasformarsi in un « testimone delegato » o in un sostituto. Sarebbe interessante, credo, condurre un’analisi parallela per quanto riguarda il fotografo: in che modo egli tratta e media le richieste che provengono dalla società? Che posto può occupare?
A/À: Nel suo libro «Evidence de l’histoire » lei ha appunto sottolineato la preminenza del senso della vista per gli storici antichi. E quindi, come lei scrive, l’evidenza, la visione chiara e distinta, in piena luce, la sua forza « permette dunque di porre sotto lo sguardo …: essa mostra, creando un effetto o un’illusione di presenza. Attraverso la potenza dell’immagine, l’uditore è colpito come se fosse stato realmente presente ». (p.14). Questo « effet de réel » caratterizza anche, mutatis mutandis, la fotografia della storia: essa ci trasforma in spettatori di ciò che è stato, come se anche noi avessimo avuto la possibilità di assistere direttamente a ciò che vediamo sull’immagine. Lo storico della fotografia Michel Frizot scrive a questo proposito: « Vedere una fotografia, significa essere presenti – o fare un passaggio – in un brevissimo istante, all’interno della scatola nera, quella che fu di fronte alla storia, veramente ». Cosa ne pensa lei della possibilità di « vedere » la storia? La fotografia rinnova forse il gesto degli storici antichi, secondo cui la storia sarebbe « una questione di occhio e di visione? »
FH: Si, in un certo senso, poiché c’è in effetti questo ideale dell’immediatezza: « Sono là, sono nella scatola nera, anche io », certo ora non c’è più la scatola ma « ho il mio telefono ». Ma c’è, anche lì, una parte di illusione, nella misura in cui questa presenza del fotografo è evidentemente costruita, attraverso la scelta dell’inquadratura e di tutto ciò che fa sì che non si fotografa qualunque cosa e in un modo qualunque, anche se a volte vorremmo far credere che si tratta di una cosa qualunque fotografata in un modo qualunque. Questo non è fondamentalmente diverso dalla pratica dello storico che, anche lui, sempre sceglie, inquadra, seleziona, elimina, mette in primo piano, mette in secondo piano, rende un tale insieme più sfocato, si concentra su un viso o un dettaglio. Come ha avuto modo di sottolineare Kracauer, è possibile reperire delle analogie tra la pratica del fotografo e quella dello storico, che si trovano l’uno come l’altro davanti alla confusione di una scena di strada o a quella di una situazione storica. Ogni volta occorre scegliere, per una ragione o per un’altra, di vedere questo e non quello ad esempio. Si tratta sempre di bricolage, di montaggio. Ma, naturalmente, né il fotografo né lo storico passano il loro tempo a ricordarcelo. Mi pare che, malgrado tutto, l’istantaneità, sotto il cui impero oggi viviamo e che comporta anche dei valori di autenticità e di trasparenza, favorisca un certo oblio della componente di artefatto di ogni fotografia, di ogni scatto, come di ogni pagina di storia.
A/À: Abbiamo parlato di Paul Graham, fotografo inglese che ha svolto un lavoro magnifico sulla rappresentazione del tempo e del presente. Le propongo qui un lavoro che si chiama « The Present », che mostra in modo molto chiaro il fatto che la fotografia sarebbe in un certo senso naturalmente destinata a parlarci del presente al tempo presente. Alcune immagini fanno pensare alle atmosfere dei romanzi di DeLillo, di cui lei ha molto parlato durante i suoi corsi. Queste immagini, cosa le suggeriscono?
FH: Si tratta secondo me di una critica del « momento decisivo », o della sua messa in questione, poiché Paul Graham ci mostra che ogni momento può essere decisivo. E quindi nessuno lo è. Questo tipo, ad esempio, è qui e nella foto successiva ha solamente fatto un quarto di giro su se stesso, e attraversa la strada. La prima foto è forse più decisiva della seconda? Ciò mi pare suggerire che non abbiamo altro che una successione e non una concatenazione. Una successione di istanti. Siamo nel presente, un presente che si decompone in istanti che si succedono, ma senza che ci sia praticamente alcun legame tra l’istante precedente e quello successivo. Ora, abbiamo la stessa persona nelle due immagini, ma il fatto che egli giri a destra o a sinistra o che faccia tre passi in più, cosa ci dice di più? Niente. Nulla ci impedisce di immaginare a partire da qui tutta una storia, ma il fotografo, scattando queste foto, mostra, traduce ciò che io chiamo il presente presentista: una frattura di tempo, senza passato e senza futuro. Il secondo prima appartiene al passato e quello dopo al futuro? Non propriamente. A volte appare un abbozzo di legame, perché la stessa persona compare di nuovo nella foto successiva, ma non è sempre così, e ognuna di queste persone cammina sulla sua strada (verso cosa, per fare cosa?) senza la minima interazione con gli altri, avvolta nella sua bolla di presente. Ecco, egli ci mostra che non c’è che presente e che questo presente è fatto solo di una successione di istanti o di istantanee. Nessun legame causale o logico dall’uno all’altro. Nessun racconto, nessuna storia.
A/À: Un tema forte che lega la fotografia e la storia è quello della rappresentazione della guerra e della catastrofe ad essa legata. Riguardo la fotografia, la posta in gioco quando si tratta di questi eventi non è solo di ordine estetico, ma anche politico e strategico. Conosciamo bene l’importanza delle immagini, sin dalla prima rappresentazione fotografica della guerra che si vuole risalga al 1855 (Roger Fenton), per la costruzione dei discorsi e dei saperi sui conflitti. Nel corso degli anni, le rappresentazioni fotografiche della guerra sono cambiate molto e, oltre al reportage, che nelle molteplici forme che ha assunto ha forgiato l’immaginario collettivo della guerra, si sono affermate altre modalità di rappresentazione. Se la presa diretta o immediata e la trasmissione in tempo reale delle immagini costituiscono ancora uno dei principali mezzi di diffusione e comunicazione della guerra, si è ugualmente diffusa una pratica di lavoro che dedica una maggiore attenzione ai margini degli eventi e a ciò che resta ai margini della storia. Esiste per esempio un grande numero di artisti e fotografi che lavorano su progetti a lungo termine, per attestare l’impatto dei conflitti sui territori e le popolazioni, che non si concentrano sull’evento in quanto tale ma che, al modo della microstoria, operano una sorta di ‘gioco di scala’. Ad esempio Lisa Barnard si occupa dei corpi, dei volti, dei traumi di coloro che hanno vissuto la guerra; Simon Norfolk si interessa al modo in cui una guerra forgia il paesaggio e le società, il duo Broomberg & Chanarin ha realizzato quello che hanno chiamato il « sequel » dell’opera di Brecht, « L’Abicì della guerra », ma secondo una declinazione iper contemporanea, parlando della guerra globale al terrorismo. Mi sembra pertanto di ritrovare una tensione tra la fotografia come documento storico, la fotografia come testimone della storia e la fotografia come posizionamento critico rispetto agli aventi storici. Che cosa ne pensa lei del ruolo e dell’uso della fotografia nella disciplina storica? In che modo una fotografia può dirci qualcosa della storia? Che cosa può dirci del tempo?
FH: Gli scatti di Fenton furono un vero e proprio fulmine a ciel sereno: improvvisamente, si poteva avere accesso al campo di battaglia, cosa che fino ad allora nessuno poteva fare. Del campo di battaglia si conosceva solo ciò che i protagonisti potevano o volevano raccontare. Ricordiamoci ad esempio dell’evocazione della battaglia di Borodino ad opera di Tolstoi in Guerra e Pace (Pierre non capisce nulla) o di quella di Waterloo nella La certosa di Parma di Stendhal (Fabrice del Dongo si chiede se avesse veramente partecipato ad una battaglia e se questa battaglia fosse Waterloo). Ciò che interessa ai romanzieri, è la distanza tra la visione di coloro che si sono impegnati nel disordine dei combattimenti e che, in fondo, non sapevano cosa stesse accadendo, e ciò che Borodino o Waterloo potevano diventare. Mentre Fenton ci offre la visione dello Stato Maggiore dell’esercito, che per Tolstoi ad esempio, è largamente illusoria, poiché niente accade come inizialmente previsto. Gli strateghi sono degli impostori. Nelle foto di Fenton, il rigoroso allineamento delle tende mostra e fa credere che tutto sia sotto controllo: pronti per l’ispezione militare!
Diversa è la proposta dei montaggi di Broomberg & Chanarin, che si basano sulla giustapposizione di due fotografie appartenenti a due momenti diversi, separati da un intervallo di tempo più o meno lungo. Per esempio, abbiamo la foto del World Trade Center immortalato mentre la prima torre è già in fiamme e il secondo aereo sta per schiantarsi sulla torre gemella. Questa foto è presentata assieme ad un’altra, che mostra un bombardamento aereo (forse durante la seconda guerra mondiale), e più precisamente delle colonne di fumo che dal suolo si alzano verso il cielo. Si trovano in questo modo associati due istanti che appartengono a due temporalità distinte. Lo stesso principio è messo in pratica in altre foto della serie, ma niente suggerisce il modo in cui si passa da un episodio a un altro: il più recente è una conseguenza o un effetto del primo? Qui, di nuovo, non c’è spazio per un tempo lineare. Si tratta di due istanti, di due presenti riuniti senza soluzione di continuità. Si passa dall’uno all’altro. Allo spettatore il compito di elaborare, se ne prova il bisogno, le transizioni: di raccontare la storia. Il fotografo può accontentarsi di mettervela sotto gli occhi. Lo storico invece non può procedere con i collage. Ci aspettiamo che egli colleghi il presente di oggi al presente del passato, che egli stabilisca un ponte. Alla giustapposizione bisogna preferire la transizione. Da molto tempo, lo storico non crede più alle leggi della storia né ad una semplice causalità, ma si interroga sulle condizioni di possibilità. Cosa è stato necessario per poter passare dalla prima alla seconda foto (ma questo è forse già l’effetto di uno sguardo analitico)?
A/À: Recentemente, uno strumento di guerra e di osservazione ha attirato l’attenzione di molti specialisti di studi visuali. Si tratta del drone, arma di guerra e allo stesso tempo dispositivo di visione, per il quale il gesto di inquadrare e quello di distruggere o di uccidere sono quasi coincidenti, sottolineando una prossimità già evidente nel verbo inglese to shoot. Con il drone, assistiamo in effetti a un cambiamento radicale delle modalità di guerra e a un cambiamento radicale nelle modalità della sua rappresentazione e spettacolarizzazione. Lontano chilometri dal campo di battaglia, l’operatore che guida il drone controlla il suo strumento permanendo in una dimensione civile dai contorni sfumati, che gradatamente muovono verso una dimensione militare; egli esercita uno sguardo di controllo costante e continuo, come suggerisce il filosofo Grégoire Chamayou nel suo « Théorie du drone ». Le immagini trasmesse dai droni sono stupefacenti per quanto riguarda le qualità estetiche e se consideriamo inoltre che questo occhio meccanico procede verso un’autonomia sempre crescente rispetto al suo operatore, l’effetto di meraviglia non fa che aumentare. Questo sguardo, inoltre, registra e trasmette in presa diretta gli eventi, testimonia malgrado tutto delle devastazioni, dei disastri, delle uccisioni, dei cambiamenti improvvisi in seguito a delle esplosioni. Nel suo libro « Regimi di storicità » lei afferma: « l’11 settembre spinge al limite la logica dell’evento contemporaneo che, mostrandosi mentre accade, si storicizza immediatamente ed è esso stesso la sua stessa commemorazione: sotto lo sguardo della camera ». Ci troviamo davanti ad un caso di presentismo estremo? Possiamo parlare, in riferimento alle immagini dei droni, di un presentismo delle immagini?
FH: Avrei la tendenza a rispondere di sì. L’evento presentista per eccellenza è forse l’11 settembre. Poiché si tratta di un evento che ha da subito incluso nel suo svolgimento la propria rappresentazione. È stato filmato nel momento stesso del suo svolgimento, come mostra appunto la foto di Broomberg & Chanarin di cui abbiamo parlato.
Per quanto riguarda il drone, si, è una macchina presentista. Esso ha la capacità di vedere e di uccidere allo stesso tempo: to shoot, ovvero filmare e uccidere in tempo reale, mentre il suo pilota può trovarsi a chilometri di distanza. Ciò che a lungo era rimasto separato in due sequenze (il volo di ricognizione seguito dall’azione) avviene ormai simultaneamente. Il drone vede e lo si vede in azione. È una sorta di avatar fuggitivo dell’angelo della storia! Ma esso è fatto per guerre non dichiarate e senza campi di battaglia delimitati, guerre che possono essere ovunque, potenzialmente interminabili.
Con le immagini catturare dai droni, siamo lontano dai reportage di guerra di una volta. Oggi, in maniera più generale, l’immagine in tempo reale si impone, l’immagine che circola istantaneamente sui social media. Vedere e far vedere sono ormai due atti separati solo da un clic. Con tutti i rischi di entusiasmo che questa pratica comporta, poiché all’istantaneità della diffusione deve corrispondere quella della reazione. Aggiungiamo ancora che ogni volta si ingaggia una gara, poiché occorre essere il primo a mostrare e di conseguenza, il primo a mostrarsi reattivo all’immagine che circola velocemente sui social media. Vedere, far vedere e reagire, tutto deve svolgersi in tempo reale e in simultanea. Si, non c’è che il presente, solo il presente.