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FRANCESCO JODICE (intervista italiana)

The Topography of Fear
Intervista a cura di Gianpaolo Arena per CALAMITA/À

Francesco Jodice è nato a Napoli nel 1967. Vive a Milano. La sua ricerca artistica indaga i mutamenti del paesaggio sociale contemporaneo con particolare attenzione ai nuovi fenomeni di antropologia urbana. I suoi progetti mirano alla costruzione di un terreno comune tra arte e geopolitiche proponendo la pratica dell’arte come poetica civile. È docente di Fotografia presso il master di Cinema & New Media della NABA di Milano e presso il master in Photography and Visual design di Forma, tiene un corso di antropologia urbana visuale presso il Biennio di Arti Visive e Studi Curatoriali della NABA. E’ stato tra i fondatori dei collettivi Multiplicity e Zapruder. Ha partecipato alla Documenta, la Biennale di Venezia, la Biennale di Sao Paulo, alla Triennale dell’ICP di New York e ha esposto alla Tate Modern, al Castello di Rivoli e al Prado. Tra i progetti principali l’atlante fotografico What We Want, l’archivio di pedinamenti urbani Secret Traces e la trilogia di film sulle nuove forme di urbanesimo Citytellers.
Francesco Jodice inaugura in maggio una sua retrospettiva a Camera – Centro Italiano per la Fotografia  Torino. La mostra sarà visitabile fino al 14 agosto.

 

www.francescojodice.com

 

© Francesco Jodice, Mont Blanc. Just things, #006, 2014

© Francesco Jodice, Mont Blanc. Just things, #006, 2014

© Francesco Jodice, Mont Blanc. Just things, #010, 2014

© Francesco Jodice, Mont Blanc. Just things, #010, 2014

 

CALAMITA/À: My God, it’s beautiful. No, it’s terrible.
(Due risposte provocate dalla prima esplosione nucleare al mondo) [1]

Lansing Lamont, Day of Trinity (New York: Atheneum,1985), p. 242.

Dal 1946, una selezione delle cineteche di archivio di Operation Crossroads – specialmente la sequenza filmata dei Baker test – è diventata una fonte usuale di esplosioni nucleari in diversi importanti documentari e lungometraggi. Verosimilmente le loro più conosciute apparizioni sono state quelle nell’apocalittica conclusione del Dr. Strangelove di Stanley Kubrick, ma gli estratti dei Baker test appaiono anche nel film in bianco e nero di 36 minuti Crossroads, 1976 di Bruce Conner. Per Edmund Burke “il terrore è comunque in qualsiasi cosa, più apertamente o in modo latente, il principio dominante del Sublime.” [2]

Burke descrive che il sublime incide come “quello stato dell’anima nel quale tutti i suoi gesti sono sospesi, con diversi gradi di orrore. In questo caso, la mente è così interamente occupata dalle sue cose, da non poterne trattenere delle altre, neanche le conseguenze della ragione su cui è coinvolta.” [3]

NOTE

01 Lansing Lamont, Day of Trinity (New York: Atheneum,1985), p. 242.
02 Edmund Burke, in The Sublime: A Reader in British Eighteenth-Century Aesthetic Theory, eds. Andrew Ashfield and Peter de Bola (Cambridge: Cambridge University Press, 1996), p. 133.
03 Ibid, p. 132.

La violenza di un’esplosione, gli incidenti, il grandioso e l’eccessivo: che cosa ci attira nella rappresentazione degli eventi catastrofici?

Francesco Jodice: Alcuni anni fa all’interno delle interviste contenute nel film Hikikomori (22′, 2004) un ragazzo giapponese mi disse che secondo lui dentro ciascuno di noi esiste un latente desiderio di morire. Nella mia opinione quella della violenza di un’esplosione, del grandioso, dell’eccessivo, e più in generale del catastrofico, è una dimensione che ci provoca un senso di orrore ma anche una sorta di desiderio epifanico di incontro; questo va in qualche modo a convergere con il pensiero di alcuni sociologi e filosofi viventi europei come Saskia Sassen e Zygmunt Bauman. Questo desiderio di vivere all’infinito, di cancellare la morte dalla nostra esistenza, di rendere se non evitabile perlomeno rimandabile l’ineludibile, sono in qualche modo contraddittoriamente al centro della nostra esistenza. Sono abbastanza convinto, a proposito di temi esplosivi e catastrofici, che tutto quello che stiamo vivendo in questi ultimi mesi, dalla fondazione dello stato dell’ISIS, alle grandi diaspore e ai grandi fenomeni migratori verso l’Europa, la neo cultura del terrorismo e questa strana forma di terza guerra mondiale in una dimensione da lento e continuo stillicidio, siano per noi insopportabili non tanto perché ci confrontiamo con una forma culturale a noi ignota ma piuttosto perché ci costringono al confronto con una parte dell’umanità ancora caduca e disponibile letteralmente e fisicamente all’esplosione, all’incidente, al grandioso, all’eccessivo, a una dimensione epica del vivere, che non sono più per noi possibili in quanto siamo intenzionati a non morire, a vivere per sempre.

 

© Francesco Jodice, American Recordings, video still 002, 2015

© Francesco Jodice, American Recordings, video still 002, 2015

© Francesco Jodice, American Recordings, video still 001, 2015

© Francesco Jodice, American Recordings, video still 001, 2015

 

A/À: Nel suo ultimo libro “American Recordings” unisce e indaga fatti di cronaca, avvenimenti storici, fenomeni sociali, film, icone pop. In che modo? Qual è la sfida maggiore che il secolo trascorso ci lascia in eredità?

FJ: American Recordings tanto nella sua dimensione espositiva, la videoinstallazione sincronizzata su 5 schermi presentata al Castello di Rivoli quanto il piccolo volume pubblicato da Humboldt Books sono un omaggio al secolo breve. Il settantennio che dal termine della seconda guerra mondiale alla ratificazione dei primi patti transoceanici fino alle possibili cuspidi di declino del modello americano che possiamo indifferentemente individuare con l’11 settembre 2001 o come preferisco con il 15 settembre 2008, la debacle finanziaria totemicamente identificata con il drop fall della Lehman Brothers. Il progetto è un omaggio al secolo breve e una sorta di descrizione di quelli che sono stati gli apici e gli abissi di questa storia. Il secolo americano è stato uno degli imperi più brevi e più intensi della storia, con delle caratteristiche uniche, tra cui quella di essere stato un impero deterritorializzato, che nella maggior parte dei casi è riuscito ad occupare l’intero pianeta non esclusivamente o solo con le armi belliche ma con l’uso e l’abuso dell’arma dello spettacolo. In particolar modo, usando l’immagine fotografica, cinematografica, televisiva, dell’informazione, del giornalismo e della comunicazione. American Recordings è una sorta di report o di breviario di questa vicenda incredibile, ma anche il racconto di un effetto boomerang e di come l’uso dell’immagine abbia permesso questa pervasività culturale e di dominio lateralizzato della cultura planetaria, lasciando molte tracce dietro di sé che hanno finito per descrivere le ragioni e le responsabilità di questa storia. Non so dire cosa lascia in eredità il secolo scorso o tantomeno il cosiddetto secolo breve ma so cosa hanno lasciato in eredità le immagini e il peso culturale che queste hanno prodotto. American Recordings come il suo progetto genitoriale che è stato il film Atlante presentato durante la Biennale di Venezia e la mostra PROPORTIO a Palazzo Fortuny tentano di sottolineare le responsabilità che questa produzione di immagini ha lasciato. Tanto Atlante quanto la videoinstallazione American Recordings sono quasi esclusivamente composte di immagini di archivio prodotte dal sistema culturale americano tra il1945 e il 2016.

 

© Francesco Jodice, Capri. The Room, #001, 2013

© Francesco Jodice, Capri. The Room, #001, 2013

 

A/À: “Un fronte freddo autunnale arrivava rabbioso dalla prateria. Qualcosa di terribile stava per accadere, lo si sentiva nell’aria. Il sole era basso nel cielo, una stella minore, un astro morente. Raffiche su raffiche di entropia. Alberi irrequieti, temperature in diminuzione, l’intera religione settentrionale delle cose era giunta al termine.”

L’incipit di “Le Correzioni” di Jonathan Franzen, magnifico e inquietante, anticipa e sembra essere il preludio di un mutamento in atto. La letteratura di Thomas Pynchon, Don De Lillo, Philip K. Dick, James Graham Ballard, Cormac McCarthy o certe visioni cinematografiche emanano quel tipo di tensione. Nel suo immaginario e nella sua memoria quali sono le immagini più forti e dirompenti che associa al ‘catastrofico’ e all’’apocalittico’?

FJ: Trovo molto interessante l’impostazione di questa domanda che parte dal bellissimo passaggio di apertura del romanzo di Franzen e soprattutto in questa espressione oscura della stella minore dell’astro morente per arrivare agli altri cantori della catastrofe. Però i 4 libri che, per una serie di motivi, amo indicare come i miei riferimenti sono Pastorale Americana di Philip Roth, Underworld di Don DeLillo, Le Correzioni di Jonathan Franzen e Infinite Jest di David Foster Wallace. Sono importanti perché invece di mostrare una meraviglia manifesta per la scena della catastrofe si interessano molto a tutta quella semiotica e segnaletica frammentaria, rarefatta, minimale che ricostruita nell’insieme prelude la catastrofe. Mi interessano molto tutti quei segni e quei segnali che possono aiutarci ad anticipare la ricostruzione di un mosaico che ci permette di capire quanto sta per accadere. Alcuni anni fa un videogioco dal titolo ‘Deus Ex: Human Revolution’ utilizzava coma claim per il lancio l’espressione ‘It’s not the end of the world, but you can see it from here’ che è diventato un po’ il paradigma del mio lavoro. Un po’ come trovarsi su un belvedere prima che questa immagine apocalittica, catastrofica e dirompente appaia e si manifesti completamente. Quasi come raccogliere tutti i segni che ci consentono di essere in anticipo sul luogo del delitto futuro.

 

© Francesco Jodice, Capri. The Diefenbach Chronicles, #006, 2013

© Francesco Jodice, Capri. The Diefenbach Chronicles, #006, 2013

© Francesco Jodice, Capri. The Diefenbach Chronicles, #003, 2013

© Francesco Jodice, Capri. The Diefenbach Chronicles, #003, 2013

 

A/À: “Qui il Tempo non sfugge alla Storia; la Storia l’ha ucciso”.

Marc Augé in “Rovine e macerie. Il senso del tempo” a proposito di Chernobyl. La catastrofe segna improvvisamente una modificazione irreversibile del paesaggio. Le cicatrici della storia lasciano un marchio indelebile sui paesaggi? Qual è il significato che ha l’evento rispetto alle nostre regole e valori sociali? Come può l’arte collaborare alla costruzione di una memoria collettiva condivisa?

FJ: L’espressione bellissima di Marc Augé rimanda a una storia talmente irreversibile da uccidere il tempo, la storia e la vicenda stessa come nel caso di Chernobyl o del Vajont fa ripensare alle pagine della miniserie a fumetti ‘Watchmen’, 1986 di Alan Moore e Dave Gibbons nel quale il fisico nucleare rimane chiuso nella camera dell’esperimento con l’orologio da taschino del padre e la catastrofe dell’evento di scissione messa in atto: prima disintegra completamente la sua presenza fisica e quella dell’orologio, dopodiché col tempo li fa riapparire fusi in un’unica cosa, la persona e il tempo, ma in una dimensione che è al di fuori del tempo, quella di una persona che vive, quasi fossimo in una sorta di teoria delle stringhe, tutte le vicende e tutti i luoghi contemporaneamente. Eventi come Chernobyl o con le dovute differenze quello del Vajont sono drammatici soprattutto perché invece identificano in questo momento storico un tempo preciso. In precedenza ho affermato che ci troviamo a vivere un momento molto particolare e di fatto la terza guerra mondiale è già iniziata, ma avremo il coraggio di dichiararcelo solo tra qualche anno, non ci sarà una dichiarazione di guerra tra stati e nazioni. Come diceva uno dei protagonisti del film Network, 1976 di Sydney Lumet, non ci sono più popoli, non ci sono più nazioni. La terza guerra mondiale è questo lentissimo stillicidio che però è quotidiano. Penso che l’unica vera immagine della catastrofe sia questa, che non ha luminescenze accecanti, non ha repentinità, non ha fall out che per quanto lunghi e vasti sono perimetrabili. Questa è una guerra che non ha avuto un inizio e che probabilmente non avrà più una fine perché non è una guerra di religione, di stato o di politiche ma una definitiva diffrazione tra due classi sociali. Quella sempre più breve degli ultraricchi e quella sempre più densa e riproducibile della povertà. Questa secondo me è la vera immagine della catastrofe, un’immagine così rovinosa, per rispondere alla seconda parte della sua domanda, che l’arte non credo possa collaborare. A un certo punto penso che l’arte non possa che schierarsi o forse dichiarare la sua impossibilità all’azione. Probabilmente di fronte a questa situazione c’è poco da fare. L’unica vera soluzione sarebbe quella di invertire la progressiva disintellettualizzazione delle classi medie occidentali. Anche se questa rimane una chimera e un’utopia e non credo sia una strada praticabile. Nel lento processo di neo medievalizzazione dell’occidente, in cui il ritorno alle religioni, al cristianesimo, ai papi o alle altre religioni sono dei segni tangibili di deculturalizzazione dei popoli. Questi segnali mascherati da operazioni politicamente corrette mirate a costruire un sistema bipolare che non ha più quel filtro storico che a partire dalla Rivoluzione francese è stata la classe media.

 

© Francesco Jodice, What We Want, Jerusalem, R31, 2010

© Francesco Jodice, What We Want, Jerusalem, R31, 2010

© Francesco Jodice, What We Want, Hong Kong, T47, 2006

© Francesco Jodice, What We Want, Hong Kong, T47, 2006

 

 

A/À: Le calamità, i cambiamenti climatici, l’inquinamento ambientale, i flussi migratori, le paure legate al terrorismo si susseguono fino a creare una sorta di universale globalizzazione del rischio. L’antropologia della catastrofe è mutata nel tempo e nella storia. Il pianeta appare esposto alla minaccia e sempre sull’orlo della catastrofe. In che modo le paure influenzano l’immaginario collettivo? In che modo è possibile fotografare le catastrofi?

FJ: Il controllo delle masse attraverso la costruzione di una strategia della paura è evidentemente una delle macchine più scoperte e più banali di cui siamo oggi maggiormente consci. Nonostante questo, persino paesi considerati evoluti e colti come Svezia, Olanda e Danimarca cadono felicemente in questo tranello. Alcuni scritti di Noam Chomsky, legati alla costruzione della strategia del parallelismo e del controllo sociale delle masse, sono stati fortementi anticipatori (la famosa definizione delle armi di distrazione di massa). Un altro testo importante su questo tema è “Ecology of Fear: Los Angeles and the Imagination of Disaster”, 1998 di Mike Davis, un autore molto interessante che per me è stato un punto di riferimento anche nella costruzione di un modello di indagine. La costruzione di una strategia del terrore, che ci fa sentire continuamente in prossimità della catastrofe, è uno dei modelli di cui siamo più consapevoli ma nello stesso tempo siamo più disposti a rifarci a esso come a un’illusoria panacea. Oggi una buona parte di persone di un certo grado culturale sono perfettamente consapevoli che le ragioni alle spalle degli attentati dell’11 settembre 2001 sono ben più complesse di come appaiono e che le responsabilità non siano unilaterali, ma nonostante questo sono poco disposti ad accettare che quello che stiamo vivendo oggi sia la diretta conseguenza di scelte sbagliate, ingiustificate rivolte verso le popolazioni arabe 15 anni fa. Esiste quindi una forma di invisibilità della struttura delle questioni in corso.

Come fotografare le catastrofi è una domanda molto significativa e complessa. Credo sia letteralmente impossibile se noi pensiamo alla fotografia in termini di dispositivo ossia di camera obscura, di pellicola, di sensore. È più facile fotografare le catastrofi se pensiamo alla fotografia come apparato culturale nel suo insieme. Fino a qualche anno fa quando l’Istat (Istituto Centrale di Statistica) pubblicava i suoi dati la televisone di stato ce lo comunicava con l’espressione “l’Istat ha fotografato l’Italia” che è un uso dell’espressione fotografico legato all’apparato fotografico e non al dispositivo tecnico. Quella fotografia è ancora possibile, la fotografia intesa come il collaudo dei frammenti ma anche il collante. Un dispositivo che ha oggi diversi gradi di credibilità, alcuni ancora profondissimi come quelli di massima prossimità al documento, altri di estrema vaghezza (tecnologico, industriale, militare, vernacolare, autoprodotta…). Tutta questa miriade di materiali sono la fotografia della catastrofe. In termini più pratici chi aveva progettato l’omicidio di John F. Kennedy il 22 novembre 1963 a Dallas, pensava che le televisioni pubbliche sarebbero state e così fu, impallate dalla folla e non potevano quindi intercettare e registrare gli eventi. I cospiratori non avevano considerato il fattore umano, Adam Zapruder sopraelevato che filmava l’intera scena in modo non controllabile. La scelta delle torri gemelle come luogo dell’attentato dipende anche dal fatto che chi ha progettato quell’attentato era perfettamente consapevole che questo era un obiettivo fotograficamente sensibile, continuamente monitorato dal fattore umano. Il vero impatto mondiale sarebbero stati non tanto le 3000 vittime ma questo flusso interminabile di immagini che diventano contemporaneamente documento e fantasia dell’orrore. Ecco perché dico che questa è forse, non tanto il dispositivo ma l’apparato culturale che ne segue, l’unica vera possibile fotografia della catastrofe. Per dirla alla Franco Vaccari “Tanto più è potente tanto più è inconscia” questa fotografia della catastrofe.

 

© Francesco Jodice, What We Want, Osaka, T49, 2008

© Francesco Jodice, What We Want, Osaka, T49, 2008

© Francesco Jodice, What We Want, Hong Kong, T46, 2006

© Francesco Jodice, What We Want, Hong Kong, T46, 2006

© Francesco Jodice, What We Want, Sao Paulo, T40, 2006

© Francesco Jodice, What We Want, Sao Paulo, T40, 2006

 

A/À: Per riprendere una definizione che Jean Baudrillard ha dato di se stesso: ho l’attitudine del parossista (da paroxyton, la penultima sillaba), di colui cioè che si ferma un attimo prima della fine e da questa postazione osserva i fenomeni estremi. Come chi analizza un’immaginaria cartografia del reale, diagnostica il presente e gioca con la fine, così l’artista registra e interpreta lo stato delle cose. In che misura nella sua ricerca artistica è importante analizzare il mutamento in atto attraverso i segnali geopolitici contemporanei?

FJ: Quando il collettivo Multiplicity di cui ho fatto parte discuteva del progetto “Solid Sea” (Solid Sea è un’indagine multi-disciplinare condotta sull’attuale assetto geopolitico del Mar Mediterraneo individua i flussi e le traiettorie che attraversano quest’area geografica e delinea l’identità degli individui che la abitano) per Documenta 11 a Kassel, 2002 ci furono opinioni differenti all’interno del collettivo. Denunciare questo terribile fatto di cronaca nera? Oppure come io pensavo, interessarsi solamente ai fatti precedenti al dramma e quindi ad esempio alle rotte e ai percorsi. La questione è sostanziale, la stessa differenza tra l’azione giornalistica e l’analisi artistica contemporanea. Mi trovo non solo disinteressato agli eventi in atto ma li considero addirittura deleteri rispetto all’informazione che si vuole dare da cui la mia nota avversità al reportage così come storicamente considerato da Capa a Bresson fino a McCurry o Salgado. La questione fondamentale è questa, io credo che l’azione artistica debba costituirsi soltanto della costruzione di una meccanica dell’esperienza e della capacità di trasferirla agli osservatori, l’arte è letteralmente un dispositivo, una macchina della visione che noi costruiamo e così facendo costringiamo lo spettatore a divenirne almeno in parte consapevole. Quale sia il vero oggetto di questa macchina della visione trovo che sia abbastanza irrilevante. Ecco perché mi interessa la proscenica della semiotica degli eventi geopolitici e non il fatto che poi questi eventi realmente prendano atto. Durante un corso di studio di un anno dedicato all’11 settembre, tutti gli studenti si dedicarono allo studio di un libro di fantapolitica, Debito d’onore, Milano, Rizzoli, 1994 scritto da Tom Clancy che anticipa e descrive con minuzia di particolari gli eventi che successivamente si sono verificati. Questo mi interessa; una volta che le torri crollano non c’è più nulla da fare. Come nella fotografia di reportage, l’emozione, il senso di inconscia indisponibilità a confrontarsi con il dramma cancellano ogni possibilità di rintracciare le vere ragioni della storia. Ecco perché è così importante analizzare questa semiotica della geopolitica prossima futura.

 

© Francesco Jodice, What We Want, Sao Paulo, T39, 2006

© Francesco Jodice, What We Want, Sao Paulo, T39, 2006

© Francesco Jodice, What We Want, Tokyo, T50, 2008

© Francesco Jodice, What We Want, Tokyo, T50, 2008

 

A/À: Il 9 ottobre 1963 la catastrofe del Vajont. Dopo più di 50 anni, in latitudini e contesti differenti, si ripetono le violenze contro le popolazioni indigene, gli eterni conflitti di interesse, la corruzione degli apparati di controllo, le complicità e le connivenze fra potere politico e industriale, la ‘rapace’ privatizzazione dei profitti e la ‘generosa’ socializzazione delle perdite. Le analogie con il presente non sono semplici dettagli. Che cosa rende unica e che cosa diversa da tutte le altre storie l’immane catastrofe del Vajont? Possiamo pensare a quella del Vajont come a una metonimia dell’Italia contemporanea?

FJ: Nella mia opinione ci sono due questioni rilevanti e aperte rispetto a questa vicenda. La prima riguarda l’episodio in sé e la rilevanza di un evento catastrofico che nel suo orrore ha una dimensione epica, mitica e quasi mistica e che per questo motivo tendo a dissociarla dal reale e a considerarla una sorta di eccezione alla regola e questo nel tempo ha facilitato a costruire un processo di diminutio delle responsabilità, quasi come se l’evento fosse sovrannaturale rispetto alle responsabilità politiche non voglio dire inevitabile. Il secondo aspetto, quello della metonimia, è verissimo ma voglio applicare una variabile. Riprendendo in particolare la citazione del filosofo tedesco Hans G. Gadamer che dice che “l’accelerazione della storia fa del rito di passaggio un fenomeno continuo”. Con questo intendo dire che noi viviamo oggi in una condizione di permanente Vajont. Questo fa si che, sia a livello nazionale che europeo, occidentale, o di rapporto tra occidente e le altre componenti del mondo geopolitico, il dramma e la catastrofe assoluta siano un dato quotidiano. Ciò produce automaticamente una forma di anticorpo. Noi dobbiamo quotidianamente esorcizzare non solo il senso di dolore davanti all’evento che compie un’azione cataclismatica ma anche il senso di responsabilità nostra e altrui. Quante delle persone defunte nelle valli dopo la catastrofe del Vajont erano in minima parte corresponsabili perché in qualche modo, in qualsiasi forma consapevoli di un possibile dramma? Quello è ciò che accade oggi… la responsabilità di quello che accade quotidianamente di chi è? Quanto la responsabilità è delle incapacità politiche e quanto della nostra collettiva disponibilità progressiva a demandare agli organi politici decisioni che non sono più né procrastinabili, né più demandabili. Credo che noi viviamo in una situazione di Vajont continuo. Il collophon di apertura dei nostri telegiornali o dei nostri quotidiani eccedono quasiasi pagina catastrofista o tema da B movie fantascientifico degli anni 50. Nessun olocausto nucleare previsto può corrispondere alla dimensione di progressiva decomposizione del tessuto sociale, culturale, civile, politico, economico, finanziario, religioso che noi continuamente affrontiamo a livello locale, nazionale, europeo, occidentale e mondiale. Per cui non solo sono d’accordo nel pensare al Vajont come a una metonimia dell’Italia contemporanea, ma anche a credere che questa catastrofe non è più extraordinaria ma anzi letteralmente è il quotidiano. Per pensare a un’immagine paesaggistica molto meno fragorosa, rumorosa, istantanea, visibile come quella del Vajont ma che ha una ricaduta assolutamente molto più potente perché molto più recondita e nascosta è quella che negli ultimi 25 anni l’industria pesante, chimica e farmaceutica ha seppellito le scorie pericolose e difficili da smaltire. Questo è stato una specie di Vajont continuo di cui tutti eravamo consapevoli. Di tutto questo erano consapevoli il mandante, il committente, l’intermediario e tutti gli utenti del loro stesso dramma. Per tornare alla domanda precedente questa è un’immagine realmente parossistica. Quale parte di consapevolezza esiste in ogni piccolo Vajont quotidiano?

 

© Francesco Jodice, What We Want, Death Valley, T54, 2002

© Francesco Jodice, What We Want, Death Valley, T54, 2002

 

A/À: “I giorni dopo il Vajont la gente era convinta che la tragedia dovesse essere un punto di partenza per una riflessione collettiva dalla quale partire per cambiare, per mettere in discussione rapporti e metodi. C’erano duemila morti ammazzati, dei quali tutti i poteri portavano una responsabilità diretta o indiretta. La Costituzione era stata messa sotto i piedi e si era rivelata incapace di garantire perfino la vita dei cittadini. Da più parti si proclamava, e si prometteva, che occorreva cambiare rotta. Invece, da allora, le compromissioni del potere politico con quello economico sono state infinite e scandalose. Si sono affinate nella degenerazione di ogni diritto, talchè la democrazia non ha più senso e reale consistenza in questo nostro paese governato da gruppi di potere palesi e occulti, dove uomini della politica e uomini dell’economia vanno sottobraccio a quelli della mafia, del terrorismo, della P2, per sostenersi a vicenda…” Così scrisse Tina Merlin in un articolo pubblicato su “Patria”. In che misura il giornalismo, la poesia e l’arte possono essere scomodi, dare fastidio, mettersi di traverso rispetto all’arroganza dei poteri forti?

FJ: Questo testo è perfettamente databile perché i termini politici sono cambiati. Oggi la condizione della politica attuale è letteralmente quella della mafia e della P2, lo dico in modo assolutamente bipartisan. Le P2 e le mafie hanno fagocitato le parti sane del paese senza più troppe acrimonie o dissidi interni. Il giornalismo non esiste più e quando esiste non può andare in scena. Il finto giornalismo ha esiliato il vero giornalismo relegandolo in luoghi e orari osceni. Il giornalismo sono il seno e le bocche rifatte delle favolose anchorwomen di Mediaset. Capiremo nei prossimi decenni se la rete riuscirà a produrre una qualche forma di giornalismo indipendente. La poesia può fare tanto ma non può fare assolutamente nulla che possa essere incisivo nella realtà, perché impoverita dalla mancanza di partecipazione, di desiderio. La poesia non può fare nulla perché è annichilita. L’arte si mette di traverso, non fa informazione, non spiega le cose. L’arte quando è buona peggiora le condizioni ed è un’esperienza politica estremamente sana. Santiago Serra anni fa pagò con i soldi della collettività dei clandestini perché affittassero dei tir, li mettessero di traverso nelle arterie autostradali, li chiudessero e scappassero via creando congestione, pericolo, paura, potenzialmente anche morte. La stessa azione di Santiago Serra mira a peggiorare le cose perché il sistema si ponga ulteriormente in pericolo in questa condizione di declivio. L’arte fa quello che lei ha detto, si mette di traverso. Possiamo soltanto sperare che ci siano ancora le condizioni per poterlo fare, se tutto questo avrà ancora un senso. Potremo considerare le azioni del governo italiano una straordinaria performance artistica. Come tutte le azioni artistiche spesso non è immediatamente comprensibile ma solo successivamente.

 

 

Gianpaolo Arena è architetto e fotografo, sviluppa progetti di ricerca su tematiche ambientali, documentarie e sociali. L’interesse per la rappresentazione architettonica ha orientato la sua attenzione verso la fotografia di architettura, il paesaggio urbano, l’uso della fotografia come indagine del territorio antropizzato, le relazioni sulle molteplici identità che appartengono e caratterizzano luoghi e persone. Editore del progetto CALAMITA/À e del magazine Landscape Stories con cui coordina campagne fotografiche sul territorio, workshops, progetti editoriali ed espositivi.


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