This World and Others Like It
Intervista di Gianpaolo Arena per CALAMITA/À
Drew Nikonowicz è un’artista che viene da Saint Louis, Missouri, e attualmente vive e lavora a Columbia, nello stesso Missouri. Nel suo lavoro utilizza tanto simulazioni digitali quanto processi fotografici analogici, per affrontare il tema del paesaggio e per esplorare il terreno della fotografia contemporanea. È il vincitore dell’Aperture Portfolio Prize 2015; il suo lavoro è stato pubblicato nel libro A process, edito da Der Greif Magazine, e ha esposto a Photokina, Colonia.
www.nikonowicz.com
CALAMITA/À: Lei è stato appena nominato vincitore dell’Aperture Portfolio Prize 2015. Congratulazioni! Che cosa può dirci del suo progetto ‘This World and Others Like It’? C’è qualcosa in questo titolo che può guidarci, mentre scorriamo la serie? In che modo le piacerebbe presentare queste immagini ai lettori?
Drew Nikonowicz: Grazie! In effetti, dall’assegnazione del premio ho vissuto un momento piuttosto entusiasmante e incoraggiante. Il titolo This World and Others Like It può funzionare come un modo per descrivere l’utilizzo che faccio di realtà multiple nel mio lavoro. Tra le altre cose, questo progetto è un invito per chi lo guarda a negoziare la propria relazione con un mondo in cui ci sono migliaia di realtà da esplorare. In quanto umani presi nel tentativo di comprendere quello che ci circonda, ci piace classificare le cose dividendole in gruppi. Puoi davvero tracciare una linea dove tu finisci e la tecnologia inizia?
Il lavoro si situa nell’abisso che esiste tra la nostra realtà immediata e quelle che ci vengono fornite dalla tecnologia. Questo gap è reale, ma è praticamente invisibile. Inoltre, questo mondo è stato sufficientemente esplorato. Fino a che gli umani non potranno esplorare ciò che esiste oltre il sistema solare, potremo avere accesso a un paesaggio sublime solo nell’ambito dei confini della tecnologia.
A/À: “La domanda che mi assilla è « Che cos’è la realtà? ». Molte delle mie storie e dei miei romanzi hanno a che fare con stati psicotici o indotti dall’uso di droghe tramite i quali posso presentare il concetto di multi-verso invece di quello di uni-verso.” – Philip K. Dick, Statement of 1975 quoted in the Dictionary of Literary Biography (1981) vol. 8, part 1.
La fotografia può essere documentazione, descrizione, metafora, allegoria… secondo lei, quanto è importante per una fotografia nascondere l’evidenza, essere allusiva o avere un forte elemento di ambiguità? Che cosa pensa della verità e della verità della fotografia?
DN: Applicazioni come Photoshop o i software CGI hanno svelato quali sono i regimi di produzione delle immagini. Il risultato è una popolazione altamente consapevole di quanto le immagini possano essere ingannevoli. Di conseguenza, oggi assistiamo a una diffusa diffidenza nelle immagini.
Penso che la fotografia abbia la capacità di descrivere i fatti, ma anche, come lei diceva, di nasconderli. Le mie immagini dicono sempre la verità, ma questa verità non appartiene sempre al mondo da cui provengono. Il problema non sta nel fatto che le fotografie possano mentire, ma piuttosto che esse provengono da una realtà e ne raggiungono un’altra. Quando attraversano questo confine, spesso questo attraversamento non risulta chiaro. Quindi, quando le immagini provengono da un’altra realtà senza rivelare la loro fonte, stanno dicendo una bugia.
A/À: In che modo sceglie i suoi soggetti? Qual è il punto di partenza per realizzare immagini come queste nell’ambito di un corpus coerente e in che modo lei lo mette in pratica nel suo lavoro?
DN: Quando ho iniziato a lavorare su questo progetto, scattavo qualunque foto mi venisse in mente. Volevo esaurire tutte le possibili soluzioni a uno specifico problema visivo, posto dalle immagini. Questi problemi visivi sono ciò che mi hanno guidato. Per esempio, l’immagine del negativo 4×5 su una tavola luminosa è qualcosa a cui sono arrivato mentre cercavo di realizzare un’immagine che contenesse un riferimento alla mia propria mano nel processo e uno all’universo. L’immagine su cui sono atterrato per trovare qualche soluzione è quella che meglio descrive quanto aspetto del lavoro.
Le idee importanti per il mio lavoro erano già lì prima che io le potessi articolare. Alcune immagini della serie del 2012 le ho aggiunte solo molto dopo, eppure hanno trovato perfettamente posto nella serie. Durante le fasi iniziali di questo progetto, non stavo scattando foto per questo specifico scopo. Penso che il punto di partenza per scoprire una coerenza in questo lavoro sia stato iniziare ad aggiungere fotografie alla serie. Ho capito che c’era una quantità di dati di supporto che avevo necessità di includere, per far sì che la serie funzionasse correttamente. E man mano che la serie progrediva, la forma diveniva più chiara quando le fotografie erano in numero maggiore rispetto agli spazi generati dal computer.
A/À: Per quanto tempo ha lavorato su queste immagini? Si sono verificati dei cambiamenti di traiettoria durante lo svolgimento del lavoro? Crede che il suo stile personale si sia evoluto in maniera considerevole o che sia semplicemente cambiato, durante la realizzazione del progetto?
DN: Ho lavorato seriamente su queste immagini durante gli ultimi due anni. Inoltre, come ho detto, poche sono le immagini che sono state realizzate prima. Il cambiamento più significativo che è avvenuto riguarda il passaggio da un complesso di immagini generate dal computer all’inserimento di fotografie nella serie. Senza le fotografie, il progetto appariva arrogante e si trasformava in un gioco di inganni per lo spettatore. Volevo che il lavoro fosse molto più onesto. Ogni cosa iniziò ad andare a posto quando le fotografie sono diventate più numerose delle immagini prodotte dal computer.
Non penso di poter individuare propriamente un stile, per quanto mi riguarda. Non penso di aver lavorato abbastanza o di aver vissuto abbastanza su questa terra. Tuttavia, ho provato ad adottare una certa coerenza nel modo in cui fotografo.
A/À: Come lei stesso scrive, « Attualmente il paesaggio sublime è accessibile solo entro i limiti della tecnologia ». Potrebbe spiegarci meglio questa frase? Che cosa è per lei il paesaggio? In che modo le fotografie si sono venute a creare, tra realtà e finzione?
DN: Paesaggio è un termine particolarmente ampio e io lo utilizzo a mio vantaggio. Dal momento che cerco strategie per descrivere e mostrare paesaggi, cerco di esplorarne ogni possibile interpretazione. Una componente altrettanto importante è che i paesaggi possono essere esplorati. Così, l’immagine di un videogioco può restituire perfettamente il profilo dei Colorado Flatirons. Noi ci troviamo a esistere in un momento intermedio tra due grandi spedizioni: alle nostre spalle l’esplorazione di questo pianeta. Da qualche parte nel futuro, giace il nostro impulso a superare i confini della terra e del sistema solare. Lo spazio inesplorato per la nostra generazione esiste nell’ambito della tecnologia o è mediato dalla tecnologia. Il Laboratorio Mars Science, Curiosity, Rover, sono talmente remoti per la nostra esperienza umana, e tuttavia la tecnologia ci consente di averne accesso. Apollo 11 è stata trasmessa in diretta tramite la radio e la televisione, ma senza quella fragile connessione Aldrin e Armstrong si sarebbero trovati soli in quella che Aldrin chiamò una «magnifica desolazione».
A/À: La visibilità opposta all’invisibilità ci riporta al teorema di Buckminster Fuller, secondo cui la tecnologia evolve dalle tracce all’assenza di tracce e dai fili all’assenza di fili. Una trasformazione considerevole, dalla materialità all’immaterialità. Che cosa pensa lei e quali sono i suoi dubbi circa gli effetti della tecnologia sulla fotografia oggi?
DN: I progressi tecnologici hanno reso la fotografia e i suoi processi più accessibili. Come ho detto prima, la sfiducia nelle immagini che ora diamo per acquisita è un prodotto della minuzia con cui i processi fotografici sono stati resi facilmente disponibili. A parte il fatto che ce n’è molta di più, la fotografia non ha subito cambiamenti significativi. Esattamente come prima, ci sono buone fotografie o cattive fotografie; semplicemente ce ne sono di più in entrambi i casi. Spesso, durante alcune conversazioni sul mio lavoro con altri colleghi, la domanda « è reale? » viene prima di altre domande.
Svelare il modo in cui produco le mie immagini funziona per suggerire una possibile rivelazione dello stesso tipo, anche per altre immagini. La sfiducia nelle immagini dipende anche dal fatto che nel mondo della tecnologia esistono molti luoghi da cui potrebbero provenire le immagini. E questi luoghi sono estremamente «realistici». Attualmente, un’esperienza vissuta tramite un videogame può sembrare tanto reale, quanto una fatta in questo mondo. Un momento particolarmente felice, ad esempio una gazzella che corre accanto alla tua macchina, può essere un’esperienza entusiasmante. Se avviene in un videogame, l’unica differenza è che qualcuno ha fatto sì che quell’evento accadesse. Qualcuno ha sviluppato un codice che dice che quella gazzella dovrà correre accanto alla tua macchina. Ora puoi fare quell’esperienza, e allo stesso modo qualsiasi altra persona. Ognuno potrà avere esattamente la stessa esperienza, esattamente dallo stesso punto di vista.
A/À: Per rappresentare il paesaggio e esplorare le possibilità della fotografia contemporanea, nella sua ricerca lei impiega simulazioni virtuali al computer così come processi fotografici analogici tradizionali e il grande formato. Che cosa l’ha condotta a indagare questi aspetti così in profondità?
DN: Internet esisteva prima che io nascessi. Per tutta la mia vita ho avuto a che fare con queste cose. Inoltre, sono stato cresciuto in modo che potessi avere regolarmente accesso a un computer e a internet. L’esplorazione e la sperimentazione attraverso la tecnologia è qualcosa che continua a stimolare il mio interesse, che sia attraverso i videogame, la modellazione 3D o altre applicazioni. Quando mi sono interessato alla fotografia, questa poteva funzionare come il pezzo mancante del puzzle. La fotografia e il linguaggio delle immagini sono diventate il veicolo attraverso cui posso articolare le idee che sono sempre state una parte importante della mia vita.
A/À: “Lo spazio e le misurazioni hanno tenuto nascosti altri mondi, ma questo mondo è stato tenuto nascosto dal tempo. Era il mondo delle cose quotidiane, il cui movimento è sempre stato misterioso. Con le ferrovie, gli esseri umani hanno iniziato a muoversi più velocemente che in natura. Con il telegrafo, hanno iniziato a comunicare più velocemente. Con la fotografia, volevano riuscire a vedere più velocemente, riuscire a vedere ciò che il tempo aveva nascosto, e ricostruire quindi questi momenti nel tempo.” – Rebecca Solnit, River of Shadows: Eadweard Muybridge and the Technological Wild West.
Lei è d’accordo fin nei dettagli con il pensiero e la lezione di Rebecca Solnit?
DN: Rebecca Solnit sta parlando del momento in cui Eadweard Muybridge riuscì a catturare con successo l’immagine del cavallo da corsa di Leland Stanford, Occident. Muybridge realizzò una serie di fotografie con una velocità di otturazione di un cinquecentesimo di secondo, congelando il movimento del cavallo nello spazio. Era la prima volta in assoluto che qualcuno riusciva a realizzare un’immagine con un otturatore tanto veloce. Muybridge ha infranto i limiti della visione oculare e da quel momento in poi, attraverso la fotografia, ha potuto vedere più velocemente che in nautra. In una precedente pagina del suo libro, Solnit cita Muybridge che dice « il lasso di tempo era talmente breve che i raggi della ruota del sediolo venivano immortalati come se non fossero in movimento ». Questo è qualcosa che oggi diamo per scontato, ma all’epoca fu assolutamente rivoluzionario.
Il mio idillio con la fotografia non riguarda soltanto le immagini finali. Mi sento particolarmente attratto anche dal processo fotografico. L’utilizzo del linguaggio che fa Solnit è eccellente; non ho potuto fare a meno di condividere una sua citazione sul mio blog. Raccomando fortemente il suo libro a chiunque si interessi di fotografia.
A/À: Il nostro progetto CALAMITA/À è legato alla catastrofe del Vajont, che avvenne nel 1963. 260 milioni di metri cubi di roccia si staccarono dalla cima del Monte Toc. Che cosa pensa a proposito della fotografia della catastrofe? Pensa che sia possibile? Qual è oggi il ruolo della bellezza e del sublime per soggetti come la guerra, le esplosioni e i disastri?
DN: C’è una linea sottile tra la bellezza e la catastrofe che deve essere padroneggiata. Szarkowski scrisse «Il mondo attualmente contiene più fotografie che mattoni e esse sono, sorprendentemente, tutte diverse». Una versione aggiornata potrebbe affermare che oggi il mondo contiene più fotocamere che mattoni. E una ricerca su Google mostrerebbe che non sono tutte diverse. Il terzo aspetto della sua domanda riguarda la questione della iper-saturazione di immagini.
In fin dei conti, questo vuol dire che in qualche modo c’è bisogno di trovare un approccio nuovo alla fotografia della catastrofe. Ad esempio, due artisti che lavorano sulle catastrofi e che potrebbero essere considerati in questo contesto sono Alfredo Jaar e Frank Gohlke. Jaar avrebbe potuto fotografare il Ruanda e condividere gli orrendi dettagli che la fotografia può mostrare. Invece, ha scelto di condividere una montagna di diapositive montate. Sono tutti ritratti ritagliati in modo da mostrare solo gli occhi del soggetto. Lo spettatore viene messo doppiamente in questione: una prima volta con la grande quantità di diapositive, che rispecchia l’intensità e la portata della catastrofe; e una seconda volta, quando lo spettatore guarda attraverso una lente di ingrandimento quegli occhi che lo fissano.
Frank Gohlke ha fotografato la sua città natale dopo che questa venisse quasi completamente distrutta da un tornado. Una delle immagini mostra due cartelli stradali spazzati via dal vento potentissimo. Questa è un’immagine della catastrofe. Senza mostrare l’evento, o qualcosa di particolarmente scioccante, egli ha mostrato la potenza di un tornado. Viene raffigurato un indizio, un segno del vento.
Recentemente, ho assistito ad una lezione a proposito di questo aspetto nella fotografia. Si è parlato di molti artisti, inclusi Jaar e Gohlke e in seguito ne ho parlato con un fotogiornalista. Egli mi disse che queste considerazioni spingevano lui e i suoi colleghi a migliorarsi nel loro lavoro. In una cultura iper-satura di immagini, per resistere e mantenere un’attenzione al senso nella maniera più appropriata, i fotografi hanno bisogno di ripensare il loro approccio a temi difficili.
A/À: A che cosa sta lavorando attualmente? Quali sono i progetti che ha in mente per il 2015?
DN: Il mio lavoro con This World and Others Like It non è finito. Più procedo nel lavoro, più intendo continuare a lavorare su questa serie. Sto anche lavorando ad una nuova serie di immagini. Ho iniziato a postarne alcune sul mio profilo Instagram, ma in realtà vedo questo progetto nella forma di una collana di piccoli libri. Ho creato l’hashtag #thelossantossurvey, in modo che chiunque possa seguire il progetto nel suo svolgimento.
Inoltre, circa un anno fa, ho acquistato una stampante 3D. L’ho utilizzata per stampare un apparecchio fotografico 3D grande formato. Oltre a questo, sto anche esplorando i modi per poter utilizzare questa nuova tecnologia nel mio lavoro. Per il 2015, intendo andare avanti con tutti questi progetti.